«Allo stato l’epidemia è in rapido peggioramento e risulta compatibile, a livello nazionale, con lo scenario di tipo 3, con rapidità di progressione maggiore in alcune regioni italiane». Giuseppe Conte risponde a una delle domande che gli vengono poste alla camera nel corso del «question time». Un momento che ha definito con il neologismo vanitoso «premier time», invenzione di un premier che ha ancora voglia di baloccarsi con la comunicazione in un momento che tutto il paese percepisce come drammatico.

Lo scenario «di tipo 3» allude all’analisi di un documento del ministero della Salute corrispondente a un allarme arancione, un passo prima del rosso. E si riferisce ai dati dell’Istituto superiore di sanità di venerdì. In realtà oggi lo scenario è cambiato, al galoppo in peggio, e il governo si prepara al prossimo. Di fronte al quale la maggioranza è divisa. Conte stamattina sarà alla camera a illustrare il Dpcm varato domenica scorsa, poi il pomeriggio sarà al senato. Ma ancora una volta il premier è fuori sincrono.

Come ha cominciato a fare mercoledì e ancor prima alla presentazione del decreto ristori, più che spiegare le misure prese, oggi Conte dovrà cominciare a preparare il parlamento e al paese alla necessità di un nuovo lockdown generale. Gli ultimi parlano di 24.991 nuovi casi positivi da coronavirus, 1.536 ricoverati nei reparti di terapia intensiva - 125 in più di mercoledì - e 205 decessi. L’imminenza di una nuova vigorosa stretta è ormai considerata una certezza la ministero della salute. La soglia dei 35mila casi giornalieri è considerata la quota oltre il quale il lockdown è obbligatorio. Le diverse proiezioni convergono sulla probabilità che entro questo week end questa soglia sarà toccata.

Lockdown è stata una parola impronunciabile fin qui, come coprifuoco. Per scongiurarlo palazzo Chigi ha prodotto tre Dpcm in dieci giorni, almeno due dei quali non hanno ottenuto gli effetti auspicabili. Forse per il terzo, quello di domenica scorsa, non avremo neanche il tempo di valutare.

I segnali

Molti sono i segnali che portano a questa ipotesi. Fra questi il fatto che la Farnesina ha già cominciato a contattare le nostre ambasciate all’estero. A un orizzonte vicinissimo dunque si stagliano le restrizioni della mobilità tra le regioni e la chiusura temporanea delle frontiere. Questa volta potrebbero restare aperte le attività produttive oltre le filiere alimentari. Dopo aver negato a lungo lo scenario, ora il premier conta di potersi accodare alle scelte di Macron e di Angela Merkel, che ha annunciato il lockdown in Germania – che è un paese che ha cinque volte le nostre terapie intensive – a partire da lunedì 2 novembre e per quattro settimane.

Mercoledì alla camera Conte ha respinto al mittente le accuse di aver deciso da solo. A un deputato di Fratelli d’Italia ha risposto con durezza: «Nel suo intervento non ha ricordato che ho illustrato preventivamente le misure ai capigruppo di maggioranza e opposizione». Ma le ha «illustrate», appunto, che non significa averle discusse e neanche condivise. È il consiglio, fino a mercoledì inascoltato, che gli ha dato il segretario del Pd Nicola Zingaretti, durante le conclusioni della direzione del suo partito e poi – repetita iuvant – con una lettera al quotidiano La Repubblica in cui chiede «coinvolgimento e confronto con le opposizioni». Anche per isolare i gruppetti che tentano l’azzardo dei fuochi nelle piazze. E, nelle stesse opposizioni parlamentari, per sconfiggere e sterilizzare i settori dei nazionalisti negazionisti.

Insomma, Conte non può più permettersi di essere l’uomo solo al comando, affiancato da scienziati consapevoli della situazione dei contagi, che però palazzo Chigi non ha la forza di ascoltare. È una delle molte carenze che gli sono state rinfacciate martedì sera durante la riunione con i capigruppo della maggioranza.

Alla fine ha preso l’impegno di aprire quel tavolo di «verifica», che nella sostanza significa la rinegoziazione del patto di un governo, con tanto di punti negoziati, in direzione di una maggiore condivisione.

Non ha scelta: i Cinque stelle sopravvivono in uno stato di instabilità politica, Italia viva in eterna agitazione per dimostrare la sua esistenza in vita, il Pd e Leu – le due forze che chiedevano una stretta più incisiva sin dall’inizio – in diverse proporzioni costretti al destino di donatori di sangue.

C’è chi, come il senatore renziano Davide Faraone, ha capito che il presidente anticiperà la «verifica» a prima della conclusione degli stati generali M5s. «Non è rimandabile una riflessione profonda su alcuni dossier che non possono più aspettare, primo il Mes: il presidente lo ha capito e ci ha dato atto della necessità di un check per capire come andare avanti in una legislatura profondamente segnata dal Covid. Già nei prossimi giorni ci aspettiamo la convocazione del tavolo politico», riferisce.

Ma altri presenti a quella riunione escludono la possibilità di questo anticipo: senza un interlocutore certo del partito di maggioranza relativa, sarebbe inutile. «Se non hai una soluzione non hai un problema», recita un brocardo della politica. Ma il senso è che le soluzioni vanno cercate quando si è alle viste di un problema. Come per la preparazione delle difese dalla seconda ondata della pandemia, anche per il rafforzamento della sua maggioranza il presidente Conte invece ha perso tempo e rimandato troppo a lungo.

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