Gli hanno dato dell’uomo immobile, e allora il premier Giuseppe Conte vuole far vedere che si «dà una mossa», come gli ha chiesto amichevolmente Nicola Zingaretti e molto meno amichevolmente Matteo Renzi. Domenica sera il premier ha convocato in fretta e furia il secondo giro di consultazioni della sua maggioranza (inviti così veloci che si rischia l’incidente con Italia viva, che lo ha appreso dalle agenzie, ma Palazzo Chigi smentisce). Ma tutto questo attivismo è solo una maniera per diluire, sfiammare, rallentare l’impatto del momento in cui i nodi politici della crisi verranno al pettine. Così ieri, appena la delegazione dei Cinque stelle è entrata a Palzzo, il premier ha chiarito che «oggi non si chiude nulla, inizia una interlocuzione» che «deve procedere in modo costante e serratissimo perché è interesse di tutti e in particolare della intera comunità nazionale che il Recovery Plan proceda speditamente perché non possiamo permetterci ritardi, ne va della credibilità del Paese in Europa».

Primi approcci

Un profluivio di parole per nascondere il fatto che siamo ancora a un giro molto vago del chiarimento nella maggioranza. Del resto i due incontri di ieri, quello con la delegazione dei Cinque stelle nel primo pomeriggio e in serata con il Pd, sono troppo affollati per poter essere una trattativa politica. Non ci sono i leader politici (no Crimi, Zingaretti e Renzi) ma i plotoncini dei ministri, sottosegretari, capigruppo. Per M5s c’è il capodelegazione Alfonso Bonafede, i presidenti Davide Crippa ed Ettore Licheri, la vice ministra del ministero dell’Economia Laura Castelli, la sottosegretaria Laura Agea e in videocollegamento dal Qatar il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Il premier si fa trovare scortato dai dioscuri titolari del dossier Recovery fund, il ministro dell’economia Roberto Gualtieri e quello degli Affari europei Enzo Amendola, causualmente anche i due dem più vicini a Palazzo Chi. La loro presenza è essenziale perché, viene spiegato, il confronto è sul «merito» del piano. Dove però al capitolo tre c’è la governance, e cioè il punto caldissimo che ha provocato lo strappo di Italia viva (e il malumore del Pd). E che ora è una delle condizioni della ripartenza del governo, senza la quale tutti gli altri discorsi rischiano di essere solo parole. Ma il tema della governance ieri non viene affrontato. E alle cinque e mezza Conte si assenta per andare al Colle (per gli auguri al presidente Mattarella) e lascia il ministro Gualtieri a snocciolare cifre di fronte alla delegazione dei Cinque stelle.

Eppure, nonostante Conte, in Italia viva qualcosa si muove. Sarà che da Pd di Zingaretti filtra la netta propensione per le urne, in caso di crisi. O che dal Corriere della sera il ministro Dario Franceschini disegna per il futuribile voto una coalizione di centrosinistra con Conte e i Cinque stelle ma senza Renzi, se autore della crisi. Chi ha parlato con il senatore di Rignano lo descrive come deciso ad andare fino in fondo, convinto che quelli di Franceschini sia un bluff, e anche irrispettoso verso il Colle cui spetta la decisione del voto. Ma in Iv qualcosa succede.

Da giorni, dinanzi alla spericolata minaccia di crisi da parte di Renzi, serpeggia un malumore fra i parlamentari, destinati per lo più all’estinzione da un eventuale ritorno alle urne. E ieri il deputato Ettore Rosato, l’uomo-macchina della scissione di Italia viva dal Pd, che domenica sera aveva dichiarato «esaurita la fiducia di Iv verso il governo», improvvisamente ha cambiato tono. Domenica «qualcosa è cambiato. Il presidente Conte ha convocato una serie di riunioni. Mi sembra un fatto positivo. Poi vediamo come vanno. Ma c’è stato un fatto nuovo», dice a Rainews. E usa, non possiamo dire con quanta malizia o se per lapsus, le precise parole con cui nel 1995 Fausto Bertinotti – il leader del Prc che anni dopo fece cadere il governo Prodi, che Renzi ha sempre sbeffeggiato e a cui oggi viene paragonato – annunciò di astenersi sulla legge finanziaria del governo Dini, ritirano la minaccia di crisi (in cambio il premier Dini promise il voto anticipato, ma questa sarebbe un’altra storia). Rosato sembra cambiare totalmente disposizione: «Per noi ci sono alcune questioni di merito centrali che abbiamo posto con grande chiarezza», dice con aria conciliante, «Poi c’è un tema di struttura e rimpasto che è stato archiviato da Conte. Oggi si pone quello di come affrontiamo la pandemia: abbiamo 200 miliardi da spendere e noi vogliamo spenderli bene».

Decide il parlamento

Vedremo oggi l’atteggiamento della delegazione Iv. Ieri quella del Pd – altro plotoncino: il capodelegazione Franceschini, i ministri, i capigruppo Andrea Marcucci e Graziano Delrio, il vicesegretario Andrea Orlando e la responsabile donne Cecilia D'Elia – ha discusso sulle priorità del piano. Che saranno formalizzate a stretto giro in un documento. Da parte dem si assicura «piena collaborazione». Ma nessun via libera. Anche perché la proposta deve poter essere emendata dal parlamento, è una condizione. Ma questo Conte lo aveva promesso anche nel pomeriggio ai rappresentanti delle regioni: «Dobbiamo mandare tutto al parlamento in modo da acquisire tutti i suggerimenti e i riscontri necessari per poter poi elaborare il progetto nella sua versione definitiva. Il Recovery dovrà essere il progetto nazionale e per poter esserlo non solo deve accogliere le istanze di tutte le Regioni, gli enti locali e le parti sociali». Bene. Ma il Pd ha chiarito che della mediazione sulla governance deve farsi carico Conte.

Stamattina l’incontro con Iv. Renzi non ci sarà, ma sarà lui a decidere se staccare o no la spina. Ammesso che ci arrivi. E che i suoi lo seguano.

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