Più che un attacco politico è una rappresaglia. E non tanto per ciò che hanno detto o fatto negli ultimi giorni o nelle ultime ore, per ciò che rappresentano per un’altra Italia che per fortuna c’è sempre e che è molto ma molto distante dalla loro. Ritorsioni che trasportano una scia maleodorante, che lasciano impronte digitali, un marchio che in fondo abbiamo sempre conosciuto. E però speravamo che l’avessero perso per strada quello stile così violento e rozzo, così primitivo, da brividi.

Due simboli dell’antimafia, Roberto Saviano e Luigi Ciotti, lo scrittore di Gomorra e il prete di Libera, personaggi diversi e anche due casi diversi ma avvicinati dal furore governativo che li ha colpiti. Senza pudore. Non ci sono precedenti, nella recente storia, di aggressioni di tale intensità e sguaiataggine. Prima la vendetta trasversale ai danni di Saviano, colpevole di avere chiamato Matteo Salvini «ministro della Mala Vita» e punito con la cacciata dalla Rai nonostante quattro puntate di un suo programma già inserito nel palinsesto per il prossimo novembre.

Senza vergogna

Per Saviano anche un’aggravante che gli hanno appiccicato addosso a tutti i costi: paragonare le sue parole contro un ministro della Repubblica a quelle di Filippo Facci («una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta») sul presunto stupro che ha coinvolto uno dei figli del presidente del Senato, Ignazio La Russa. Un colpo di qua e un colpo di là, come se Saviano e Facci fossero ingredienti della stessa minestra. Uno a uno e palla al centro. Sono veramente senza vergogna. Banalizzano tutto, confondono, depistano. Questi sono gli uomini e le donne «cresciuti nel mito di Paolo Borsellino» e che oggi regnano in Italia. E sono tanti i loro amici che li sostengono, che li difendono a comando – o a gettone –  pronti a falsare ogni gioco.

Il precedente del governatore Scopelliti

La pretestuosità dell'assalto a don Luigi Ciotti è ancora più evidente perché il presidente di Libera, l’altro giorno, ha ricordato che il Ponte sullo Stretto «non unirà solo due coste ma anche due cosche», una frase che è stata ripetuta migliaia di volte in questi ultimi anni. Il copyright è di Nichi Vendola ed è datato 11 maggio 2009. Lo prese subito a male parole il governatore della regione Calabria, Giuseppe Scopelliti, e minacciò querele a raffica il sindaco di Messina, Giuseppe Buzzanca, tutti e due scandalizzati e tarantolati, povere anime, come se Vendola avesse bestemmiato sulla pubblica via, come se in quel 2009 fra Villa San Giovanni e Torre Faro non si fossero già insediate decine e decine di imprese in odore di mafia e di ‘ndrangheta.

Da quel momento, 11 maggio 2009, «il Ponte che unisce due cosche» è entrato nel linguaggio comune. E allora perché il ministro Salvini si è scatenato contro don Ciotti? Perché non aspettava altro, gli serviva solo una scusa per scaricare la sua rabbia contro chi ha sempre riconosciuto come un nemico. Certo il prete di Libera invece di rilanciare meccanicamente solo uno slogan avrebbe potuto meglio argomentare il suo pensiero, ma non è questo il punto. Perché non sarebbe cambiato molto. Il ministro era lì in agguato, non aspettava altro. Appena usciti dalle spaventose due ultime edizioni delle celebrazioni degli “eroi” siciliani, Falcone e Borsellino, i nuovi padroni d'Italia ci stanno dicendo che non vogliono più una certa antimafia fra i piedi. Per resistere non so esattamente cosa occorra fare, di sicuro non è più tempo solo di marce e di bandiere, non è più tempo di propaganda e indottrinamento.

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