Dal vicolo sbucò all'improvviso Joe Marrazzo. Con il microfono in mano stava inseguendo un uomo che camminava velocemente verso uno slargo dove una volta legavano muli e giumente, la posta dei carrettieri.

L'uomo cominciò a correre e anche Joe cominciò a correre, tallonato dal suo operatore gravato dal peso della telecamera. Quando l'uomo finalmente fu raggiunto, Joe tirò fuori il suo ghigno migliore e sparò la sola domanda che voleva fare: «Ma qui c'è la mafia?». L'uomo barcollò all'indietro, come se l'avessero trafitto alle spalle con una coltellata. Poi sparì dietro un portone.

Joe cominciò a correre dietro a un altro uomo, e poi a un altro ancora fino a quando si arrese. Nessuno, nessuno aprì bocca davanti a uno dei più famosi giornalisti televisivi del tempo, come si diceva allora un “cronista d'assalto” che aveva firmato reportage sulla camorra da Napoli e sui sequestri di persona dall'Aspromonte. Da qualche mese però, i tg della Rai l'avevano inviato sempre più di frequente in Sicilia. I morti erano laggiù. «Ma qui c'è la mafia?».

Mercoledì 26 settembre 1979, la mia prima volta a Corleone. Qualche ora prima a Palermo avevano ucciso Cesare Terranova, il giudice che aveva “scoperto” Luciano Liggio e Totò Riina. 

Tombstone, pietra tombale

Di Corleone sapevo soltanto che i vecchi boss siculo-americani una volta la chiamavano Tombstone, pietra tombale, per i tanti morti che c'erano stati fra il 1958 e il 1963, una guerra fra famiglie che sembrava non finire mai. Non sapevo altro. Neanche di quei due cadaveri che il giorno prima erano dentro un'auto messa di traverso in una stradina, trapassata dalle pallottole di una mitraglia e circondata da esseri umani che rassomigliavano a statue pietrificate e sudate, i magistrati di quel Tribunale di Palermo dove da lì a qualche giorno Cesare Terranova si sarebbe dovuto insediare come consigliere istruttore. E invece era schiantato dentro l'auto, accanto al maresciallo Lenin Mancuso che era la sua ombra, poliziotto e amico.

Da un paio di mesi il giudice aveva lasciato Roma, due legislature in Parlamento come “indipendente di sinistra”, in intimità con Emanuele Macaluso e Pio La Torre aveva elaborato quella legge sull'associazione mafiosa e il sequestro dei beni che sarebbe stata poi approvata nel 1982 dopo l'omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Aveva voglia di tornare in Sicilia, al suo mestiere. Indagare.

«Delitto preventivo», sentenziarono gli esperti. Cesare Terranova faceva paura, soprattutto a quello che era considerato il capo della mafia di Corleone: Luciano Liggio, detto lo "sciancato” per il morbo di Pott che affliggeva la sua colonna vertebrale e per la sua spavalderia anche "Coccio di fucu” che significa seme di fuoco.

Cesare Terranova era diventato il nemico numero uno di Liggio, l'aveva incastrato, portato a processo, umiliato davanti a tutto il paese perché lui si sentiva un intoccabile.

Il suo destino era segnato, annunciato anche in un quadro che aveva appeso alle pareti del suo studio nella bella casa palermitana di via Rutelli, un dipinto premonitore del pittore Bruno Caruso, il giudice davanti e dietro di lui un minaccioso Liggio fra le pale di ficodindia.

Il boss detto “il Borbone”

«Dobbiamo salire a Corleone», mi disse Gianni Lo Monaco. Gianni era il cronista anziano del giornale L'Ora, conosceva mafia e mafiosi e conosceva palmo a palmo la campagna che si arrampica sulle colline intorno a Palermo. Prendemmo la strada più breve, cinquantanove chilometri, quella che passa da Marineo e poi sfiora il casino di caccia che vollero i Borboni ai piedi della Rocca Busambra.

Dopo mezz'ora di curve e tornanti Gianni finalmente parlò: «Il capo di qui si chiama Vincenzo Catanzaro e detto "il Borbone”, ma da qui in poi entriamo in un altro mondo».

L'altro mondo aveva fama di luogo isolato, lontano da tutto e tutti. Era esattamente in mezzo alle altre capitali di mafia della Sicilia, Villalba, Lercara, Salemi, Alcamo, Partinico. Da Corleone, c'erano più strade che portavano in meno d'un'ora in ogni angolo dell'isola.

A Palermo la più diritta, poi un'altra che attraversava Prizzi e raggiungeva la provincia di Caltanissetta, quella che passava da Belmonte Mezzagno, quella che scendeva a Ribera nell'agrigentino e quell'altra che arrivava nel trapanese a Partanna, alla Valle del Belice.

Corleone in quel giorno di settembre era un paese fantasma, tutti rintanati in casa. Gianni parlava poco ma quando parlava bisognava ascoltarlo: «Vedì là dove c'è quel portone?, là c'era il salone da barba di Giovannino, come ragazzo di bottega aveva suo figlio Vito che ebbe la fortuna subito dopo la guerra di fare l'interprete al colonnello Charles Poletti». Era il capo dell'Amgot, il governo militare alleato. Vito Ciancimino, il figlio del barbiere di Corleone che in quel 1979 era uno dei padroni di Palermo.
Via Rua del Piano, la discesa San Rocco, l'ospedale dei Bianchi, la via Scorsone dove tanto tempo prima abitavano «un certo Totò Riina e sua moglie Ninetta ma sono latitanti da dieci anni». Si sapeva ancora poco di Riina nel 1979, la star mafiosa era ancora Liggio.
 

La mostra di Letizia Battaglia

LaPresse/Guglielmo Mangiapane

La piazza era spazzata dal vento. In mezzo una donna, con una larga gonna a fiori, provava ad incollare su alcune tavole un centinaio di immagini in bianco e nero. Ritratti e scene del crimine. Il giornalista Mario Francese ucciso nel gennaio precedente, il corpo insanguinato inchiodato al volante della sua auto del segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina, il sorriso e i baffoni del capo della squadra mobile Boris Giuliano assassinato a luglio. E le ultime immagini della mattanza: i cadaveri di Cesare Terranova e di Lenin Mancuso.

Una mostra “non autorizzata” di Letizia Battaglia. La donna nella piazza era la famosa fotografa. E con lei Franco Zecchin, suo compagno e anche lui fotografo. Nella piazza c'erano solo Letizia e Franco. Fino a quando arrivò Joe Marrazzo. Trafelato, sempre con il microfono in mano e con un registratore pieno di silenzi.

Tutti insieme siamo saliti alla Rocca dei Maschi, che domina il paese. Da una parte si scende verso la Montagna dei Cavalli, quasi trent'anni dopo - l'11 aprile del 2006 - sarei tornato lì il giorno che catturarono Bernardo Provenzano in un miserabile covo.

Da Gianni imparai anche le differenze della “parlata” fra tutti i mafiosi della Sicilia occidentale e i Corleonesi. Per indicare qualcuno che si atteggia a mafioso in tutta l'isola si dice "quello si annaca”, annacarsi significa muoversi ma stando fermi.

A Corleone invece dicono "quello sciuscia”, soffia, soffia ma senza fare vento. Il vecchio cronista mi spiegò chi era Cesare Terranova, che bene conosceva avendolo incontrato ogni mattina per anni nel suo "giro” in Tribunale: «Era una mosca bianca, i suoi colleghi dicevano che vedeva mafia dappertutto, il problema è che loro non la vedevano mai».

Il giudice istruì i due più grandi processi a Cosa Nostra prima del maxi di Giovanni Falcone. Uno contro la mafia palermitana, denominato dei “114”. L'altro contro la mafia di Corleone, tutti corleonesi, sessantaquattro imputati fra i quali Liggio, Riina e Provenzano.

Il processo di Catanzaro e quello di Bari

Celebrati per legitima suspicione - legittimo sospetto - lontani dalla Sicilia, il primo a Catanzaro e il secondo a Bari, i due processi finirono con assoluzioni di massa per insufficienza di prove. Fino a quel momento Terranova era noto solo dentro i confini dell'isola, diventò famoso in tutta Italia quando nel 1971 fu nominato procuratore capo della repubblica di Marsala e sparirono tre bimbe, la storia del "mostro”.

Le trovarono in fondo a un pozzo, Terranova non trovò pace sino a quando non scoprì l'assassino, il nonno di due delle tre bambine. A Marsala arrivarono frotte di giornalisti, il volto del magistrato divenne popolare agli italiani, la destra colse il momento per scatenare una violentissima campagna per la pena di morte.

Poi l'avventura politica a Roma, la Commissione Giustizia e soprattutto la Commissione Antimafia. Con Macaluso e La Torre firmò la "relazione di minoranza”, il primo documento dell'Italia repubblicana sui rapporti fra mafia e politica, il "sacco” di Palermo, le indecenze di Lima e di Gioia e di Ciancimino.

Nel frattempo Luciano Liggio fu catturato, poi una latitanza protetta, un altro arresto, la condanna all'ergastolo per le inchieste istruite da Terranova. Ma per l'uccisione del giudice Luciano Liggio fu processato e assolto in ogni grado di giudizio.

La pubblica accusa non ha mai allargato lo sguardo, come movente individuò solo l'odio che il boss aveva per il magistrato. Solo quello. Tre mesi dopo a Palermo uccisero il presidente della Regione Piersanti Mattarella, meno di un anno dopo il procuratore capo Gaetano Costa, poi La Torre e Dalla Chiesa e poi ancora Rocco Chinnici, il giudice che aveva preso il posto di Cesare Terranova all'ufficio istruzione. Era solo odio?

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