Da quando è scoppiata l’epidemia di coronavirus è circolato un dogma basato sul tracciamento dei positivi con il tampone oro-faringeo e analisi molecolare in Real Time Polymerase Chain Reaction (RT-PCR). Questa tecnica, che ricerca il materiale genetico del virus, è da anni è lo standard di riferimento. Ha il limite dei costi alti per test e della elevata specializzazione richiesta nella lavorazione. Esistono applicazioni a minore specializzazione, con automazione totale e senza intervento dell’operatore e con operatività di piccola scala. Con queste tecniche purtroppo il costo per test sale ulteriormente.

Il tariffario del servizio sanitario regionale prevede circa 70 euro. La tariffa è consona (cosa non scontata, molte prestazioni del tariffario sono spesso sotto-remunerate). Tra l’altro a livello mondiale si è creata una carenza di materiali necessari per queste tecniche.

Dopo pochi mesi dall’epidemia (diciamo verso aprile o maggio) si è trovata una nuova strada: anziché cercare il materiale genetico del virus si cercano gli anticorpi che l’organismo produce come reazione al virus (Test sierologico). Anche questa tecnica è utilizzata da anni per i virus. Per esempio, è alla base degli screening per HIV e HCV. Questa strada è stata, in una fase iniziale ingiustamente infamata.

I primi fallimenti dei test rapidi

Il problema è che i primi kit diagnostici messi in commercio, basati sulle immunocromatografie (le cosiddette “card” o anche “saponette” in gergo), avevano performance analitiche pessime. Tant’è che nessun laboratorio serio effettua lo screening di HCV e HIV con queste metodiche. E’ roba buona per le ragazzine che vogliono fare un test di gravidanza senza farlo sapere (nel caso del test di gravidanza, però, le card funzionano anche dignitosamente). Si tratta quasi sempre di materiali di produzione cinese. Questi test sono denominati “Test rapidi”, perché forniscono risultati in pochi minuti su sangue ottenuto con piccole punture sul dito. 

La dicitura “Test Rapido” è riferita alla tecnologia d’analisi (immunocromatografia) e non alla tecnica in se (alla quale si fa riferimento con il termine sierologia). Questi test tipicamente hanno l’aspetto di scatolette bianche che producono 1 o due striscie colorate di rosa. L’immagine ci è diventata familiare in questi mesi grazie ai media.

Parallelamente i grandi produttori di diagnostici europei e americani (Roche, Diasorin, Biomerieux, Siemens, Abbott), hanno messo in commercio test sierologici strumentali, che ricercavano gli anticorpi con le tecniche di laboratorio ordinarie, su campioni derivanti da prelievo venoso. 

Malati convinti di essere sani

Per descrivere in confronto le performance di questi test devo introdurre la definizione di sensibilità, che è la capacità del test di riconoscere i veri positivi. Ipotizziamo 100 pazienti con 10 malati e 90 sani.

Se un test identifica 9 positivi su 10 ha una sensibilità del 90 per cento. Fornisce quindi 1 falso negativo. Tipicamente la diagnostica di laboratorio ha sensibilità superiore al 98. per cento. I test rapidi di circa il 90 per cento. O anche meno. 

Devo introdurre anche il concetto di specificità, che è la capacità del test di escludere i falsi positivi. Se fra i 90 sani del nostro esempio il test fornisce 9 falsi positivi il test ha una specificità del 90 per cento.

Tipicamente la diagnostica di laboratorio ha sensibilità superiore al 98. I test rapidi di circa il 95 per cento. L’uso dei test rapidi quindi fa molti errori: anzitutto si perde dei positivi veri, mandando in giro persone malate convinte di essere sane. Inoltre spaventa molti sani dicendogli che sono malati, costringendoli a test di secondo livello (conferme) per smentire la positività. L’uso dei test di laboratorio riduce di notevolmente questi errori (che comunque non sono mai pari a zero, neanche con le tecniche RT-PCR). La sierologia ha inoltre un altro problema che non dipende dalla tecnologia impiegata ma dalla tecnica. Gli anticorpi si sviluppano a seguito dell’infezione e quindi la sierologia risponde in ritardo rispetto all’infezione.

Con le migliori tecniche si stima che la sierologia riesca a riconoscere il 60 per cento dei casi Covid nella prima settimana e il 95 per cento nella seconda settimana. La percentuale diventa superiore al 98 per cento solo la terza settimana. La sierologia ha però il vantaggio che riesce a rilevare la malattia anche mesi dopo, perché gli anticorpi permangono in circolo molti mesi (forse per anni). Quindi in una fase post-lockdown la sierologia era un test idoneo a valutare quali e quanti soggetti erano stati esposti al virus. Per questo motivo la Regione Lazio ne ha autorizzato l’utilizzo intorno maggio.

A Settembre la gestione della malattia doveva essere diversa. Fortunatamente la tecnica ci è venuta incontro.

La capsula virale 

Per indagare i virus esiste una terza via: la ricerca delle proteine che compongono la “capsula” virale. Questa tecnica è già in uso in alcuni campi. Ad esempio nei test HIV di ultima generazione si ricerca anche la proteina P24. Con una ricerca combinata anticorpi + proteine si migliorano le performance del test nelle primissime fasi, quando gli anticorpi sono ancora deboli. Questi test prendono il nome di test Antigenici. 

Anche in questo caso esistono test rapidi, di performance modeste e test di laboratorio, di migliore qualità. I secondi, arrivano in genere in ritardo sul mercato, perché richiedono tempo di sviluppo industriale più lunghi. Poiché i test di laboratorio sono scarsamente disponibili in questo campo si è arrivati alla confusione terminologica di definire tutti i test antigenici come “test rapidi”.

Vista la disponibilità di queste tecniche la Regione Lazio ha pensato di organizzare i drive-in. Test di massa a costo più basso e senza personale di laboratorio (quest’ultimo punto è rilevante più dei costi bassi). 

Al momento dell’organizzazione sul mercato c’era ben poco.

Così si è deciso, in molti bandi ad affidamento diretto, per un prodotto coreano di performance non proprio eccellenti, con una tecnologia mista (immunocromatografia ma rilevazione strumentale fluorescente.). Scelta dignitosa la momento della decisione, forse la migliore possibile in quel momento. Il test è idoneo per la “pesca a strascico” degli aeroporti.

I test RT-PCR sono troppo costosi per uno screening di massa generalizzato e comunque, anche volendo spendere, non ci sono risorse organizzative e strumentali. In queste condizioni identificare 8 veri positivi su 10 è sempre meglio che non identificarne nessuno. Magari poi il test segnala anche 10 falsi positivi, ma possono essere poi smentiti con un test RT-PCR. Comunque vista la carenza diagnostica su territorio si utilizzano i drive-in anche per le diagnosi di covid su pazienti sintomatici. E qui si commettono i primi grandi errori. Perché utilizza lo screening (basso costo, basse performace, popolazione oggetto di test a bassa prevalenza) come diagnostica (costo più alto, performance migliori, popolazione oggetto di test a prevalenza alta).

Abilitazione o certificazione? 

Nel frattempo, vista l’evidente insufficienza organizzativa dei drive-in regionali (sono stato testimone di code lunghe 8 ore), qualcuno in Regione ha pensato di abilitare anche i privati ad eseguire questi test. Dal punto di vista normativo la cosa non ha particolare senso: un laboratorio accreditato è autorizzato ad eseguire qualsivoglia tecnica di laboratorio rientrante nel suo profilo autorizzativo. La parola abilitazione non è neanche prevista nella normativa. 

Esiste un però. A marzo, all’esplosione della pandemia non esistevano kit certificati CE IVD (In Vitro Diagnostics). E questo per ovvi motivi: il virus era nuovo e non c’era stato tempo di certificare nulla.

Quindi si ritenne che, se un laboratorio voleva eseguire RT-PCR per COVID, doveva essere “certificato” dallo Spallanzani. La rete CoroNet che ne è derivata, inutile dirlo, include solo laboratori pubblici con la sola rilevante eccezione del gruppo Gemelli/Columbus/Bambino Gesù. Quindi fin da marzo la laboratoristica Covid è sempre stata in mano a pochi specifici attori. Cosa che, nel momento dell’emergenza poteva apparire accettabile. 

Al temine dell’emergenza alcune strutture private hanno provato a rompere il muro, scontrandosi conto vari livelli di giudizio fra TAR e Consiglio di Stato.

Forte di una vittoria la Consiglio di Stato la Regione Lazio ha ritenuto di poter decidere, in piena autonomia chi fosse abilitato a fare cosa in termini di diagnostica Covid. Siamo arrivati al paradosso che una struttura specializzata in genetica, presente su tutto il territorio italiano, a Milano offriva test e a Roma non offriva test. Per cui ci siamo ritrovati a Maggio in una Regione in cui era impossibile ottenere un tampone molecolare dalla Asl e però, andando al Gemelli, potevi fare il tampone a pagamento per 70 euro.

I pochi laboratori privati che avevano provato a sfidare la Regione Lazio sono stati definiti dall’assessore alla Salue Assessore D’Amato «sciacalli che lucrano sulla sofferenza delle persone». E sono stati oggetto di cortesi visite dei NAS su segnalazione Regionale. Esiste quindi un generale orientamento cautelativo ad aspettare di essere “abilitati” dalla Regione Lazio, anche se non c’è fondamento normativo.

Mentre in altre Regioni si abilitavano tutti i possibili attori all’esecuzione del test per aumentare il più possibile l’offerta, nella Regione Lazio si manteneva la linea del lockdown del test. Con danno anche erariale, perché un test erogato dal privato è a carico del cittadino, e costituisce quindi un risparmio per le casse Regionali.

La tariffa solo «di riferimento»

Il 18 Settembre finalmente esce una determina di abilitazione per i test antigenici: la determina autorizza solo specifici laboratori, dotati di particolari settori specializzati, ad eseguire i  test esclusivamente con metodiche strumentali e non con test rapidi. Non c’è limite alla tariffa da applicare privatamente, ma solo obbligo di esporre al cittadino una tariffa di riferimento (pari a circa 15 euro). La tariffa di riferimento non era congrua, ma di questo non ci preoccupiamo, visto che va solo esposta.

Ordiniamo le migliori strumentazioni che riusciamo a reperire sul mercato, con tecnologia microfluidica immunofluorescente. Materiale di produzione inglese, approvato per l’uso dall’FDA americana, l’autorità di regolazione sanitaria.

Sensibilità attesa nelle prime 2 settimane maggiore del 98,8 per cento e addirittura sopra il 99,9 per cento nei primi quattro giorni dei sintomi. Specificità superiore al 97 per cento. Un test che riteniamo adeguato a rispondere alla domanda «Posso escludere il COVID in questo bambino e farlo rientrare a scuola?». Ben sapendo che durante l’inverno questa domanda ci sarebbe stata posta molte volte dai pediatri.

L’importate a nostro parere era non reimmettere soggetti malati in società.

La determina conteneva già una evidente criticità: richiedeva di compilare una autocertificazione in cui dichiaravamo che ALLA Regione Lazio che LA Regione Lazio ci aveva rilasciato l’autorizzazione con settore specializzato. La Regione si prendeva 10 giorni di tempo per stilare un elenco degli autocertificandi da abilitare. E intanto l’epidemia montava. E noi con le strumentazioni ferme in attesa di abilitazione. E i drive-in scoppiavano.

La nuova determina

Il 29 Settembre l’amministrazione Regionale ritira la determina e ne fa una nuova. A seguito di colloqui ed accordi con le associazioni di categoria cambia le carte in tavola. Ora tutti i laboratori, su autocertificazione, possono richiedere di essere abilitati. E così il countdown dei 10 giorni riparte con le nuove autocertificazioni. E intanto i casi aumentavano e le strumentazioni ferme. La decisione di abilitare tutti va a vantaggio della Associazione cliniche private. Quasi nessuna di queste infatti dispone, nei piccoli laboratorio di cui sono dotate, dei settori specializzati che la prima determina richiedeva. E hanno un imminente bisogno di testare i pazienti all’ingresso senza dover esternalizzare il servizio. Bisogno, legittimo sia ben chiaro.

La determina contiene anche ulteriori novità: si abbassano le richieste di qualità del test e si imposta una tariffa massima di 22 euro, cosa non compatibile con le strumentazioni di alta gamma che i molti laboratori avevano ordinato sulla base della prima determina.

Molti laboratori si erano orientati su un costo al paziente di circa 35-40 euro, in ragione di costi materiali e organizzativi di circa 32 euro ed un investimento iniziale strumentale di circa 20 mila euro.

Nei giorni seguenti è un continuo aggiustare il tiro. Si rende l’autocertificazione (finalmente!) abilitante, si abbassano ulteriormente i requisiti di qualità, abbassandoli fino al livello del test rapido cinese. (addendum vari) Infine si obbligano i laboratori, sempre nell’ambito dei 22 euro, a ritamponare tutti i positivi e a trasportare il secondo tampone a proprie spese verso Coronet. Così Coronet può confermare il caso. 

Quindi ora quasi chiunque è teoricamente autorizzato ad usare test con sensibilità dell’80 per cento. Per capirci 2 positivi su 10 li rimandi indietro come sani. E però i positivi li deve ritestare Coronet. Così passano giorni prima della conferma del caso e intanto il tracciamento va a farsi benedire. In pratica si è cercato di disattivare il provvedimento. Non potendo semplicemente ritirarlo si sono poste condizioni talmente restrittive da renderne non conveniente l’attivazione. Il mix di tariffa bassa, qualità scadente, concorrenza ampia, complicazioni burocratiche e organizzative è fortemente disincentivante per chiunque sia dotato di un minimo di coscienza professionale.

I privati traditi

Chi si era diligentemente dotato di investimenti sulla base della prima delibera ha continuato ad erogare il test alle condizioni che poteva. Prendiamo il caso di un laboratorio che eroga  il test a 22 euro, chiedendo al paziente 10 euro per il prelievo microbiologico. Cosa assolutamente legittima dal punto di vista normativo (ad esempio a tariffario regionale la glicemia costa 1,07 euro, il prelievo venoso 2,58 euro).

A mlti laboratori cifre intorno ai 10 euro per fare un tampone in tuta integrale ad un sospetto malato di Covid sono sembrate adeguate almeno per il recupero delle spese infermieristiche e di dispositivi di protezione personale.

I 10 euro inoltre consentono di recuperare le spese di segreteria visto che, per evitare assembramenti e contaminazioni, siamo costretti a fare tutto al telefono, senza far entrare i pazienti in laboratorio, con pagamento on-line soggetto a commissioni, e su appuntamento, per evitare le file, il che ovviamente riduce notevolmente la capacità oraria di erogare i test e aumenta l’incidenza del personale. Sinceramente erogare a 32 euro non genera margini. Stiamo erogando per cercare di recuperare l’investimento strumentale e per fornire un servizio alla popolazione.

Su Roma, forse a causa di maggiori costi di gestione, la spesa totale è generalmente più alta e si assesta sui 40 euro, con picchi di 60 euro in una struttura che però offriva un test triplo nasale, faringeo e salivare.

L’assessore D’amato nel frattempo pubblica notizie sui media della Regione Lazio e annuncia che è stata trovata la soluzione ai problemi dei drive-in perché tutti i cittadini possono eseguire il test a 22 euro in decine di strutture private. Salvo che i 22 euro sono al netto di un prelievo microbiologico su sospetto Covid che tutti stanno chiedendo. Salvo che la maggior parte dei laboratori ancora aspetta strumentazioni e reagenti, perché, visto il caos normativo, ha sospeso tutto. 

L’assessore si irrita perché le strutture non sono pronte al suo comando, quindi invia i NAS presso le strutture che praticano tariffe private non conformi alle sue comunicazioni su Facebook. Conclusione molte strutture hanno sospeso o rinunciato al servizio perché non remunerativo e rischioso sotto molti profili. Le poche rimaste stanno pensando di interromperlo a breve, non appena esaurito il materiale ordinato. Nel frattempo l’epidemia monta e nessuno sa come testare i sospetti. I pediatri non sanno cosa inventarsi. Le classi finiscono in quarantena. Tutto il cordone di identificazione/isolamento/tracciamento è saltato.

L’ultimo atto di questa avventura è la richiesta della Regione Lazio, arrivata pochi giorni fa, di manifestare l’interesse dei privati per eseguire anche i test molecolari di conferma. Bando dedicato però solo alle megastrutture in grado di eseguire almeno 5.000 test al giorno, che devono garantire una tariffa di 60 euro o inferiore. Un affare da 300mila euro. Al giorno.

Arrivati all’emergenza, con la prevenzione ormai inefficace, si apre finalmente ai privati, ma non a tutti, solo ai grandi gruppi di laboratorio. 

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