Dall’inizio di luglio ben tre aziende dell’automotive hanno annunciato la chiusura di stabilimenti in Italia: la Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, in provincia di Monza, con 152 lavoratori licenziati, la Gkn di Campi Bisenzio (Firenze) con 422 dipendenti messi alla porta, e la Timken di Brescia con 106 posti a rischio di essere cancellati.

Ogni impresa ha la sua storia ed è difficile trovare i fili rossi che uniscono questi tre casi. Almeno un paio ci sono: la fine del blocco dei licenziamenti e l’appartenenza in senso lato alla componentistica dell’auto. Mentre la loro attività (cerchi, cuscinetti, giunti) non ha molto a che fare con l’avanzata dell’auto elettrica e la crisi dei motori tradizionali.

Coincidenza ha voluto che, mentre queste imprese annunciavano la chiusura, il 14 luglio la Commissione europea presentasse il pacchetto Fit for 55, che propone la fine dal 2035 delle vendite di veicoli con motore a scoppio. Misure accolte con urla di dolore dall’Anfia, l’associazione che rappresenta l’industria italiana dell’automotive, la quale ha definito «insostenibile» lo sforzo che il comparto e il tessuto sociale ed economico del nostro Paese dovranno sostenere per adeguarsi alle decisioni annunciate dalla Commissione. Facile dunque arrivare alla conclusione che la crisi dell’auto e della componentistica è causata dalle scellerate decisioni dell’Europa, sempre più dura con le case automobilistiche.

Ma il Fit for 55 è davvero una minaccia mortale per il mondo dell’auto europea? In realtà non è proprio così e le misure contenute nel pacchetto sono frutto di un compromesso tra la Commissione, le case automobilistiche e un gruppo di nove membri dell’Unione.

Cosa c’è nel pacchetto Fit for 55

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Il pacchetto Fit for 55 contiene 13 proposte legislative sull’energia e sul clima, che hanno lo scopo di dare concretezza all’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, come previsto dal Green deal europeo. Per quanto riguarda le auto, la Commissione propone che le emissioni delle autovetture nuove diminuiscano del 55 per cento a partire dal 2030 e del 100 per cento dal 2035 rispetto ai livelli del 2021. Di conseguenza, tra 14 anni tutte le autovetture nuove immatricolate dovranno essere a zero emissioni.

Se questa proposta fosse caduta improvvisamente dal cielo bisognerebbe preoccuparsi davvero. Ma non è così: essa è frutto di uno scambio con la case automobilistiche che ruota al nuovo standard sulle emissioni Euro 7, destinato ad entrare in vigore dopo il 2025.

Presentato nell’ottobre dello scorso anno dall’Agves (Advisory Group on Vehicle Emission Standards), il gruppo di lavoro incaricato dall’Unione Europea, lo standard Euro 7 è stato giudicato troppo severo dai produttori, che lo consideravano irrealizzabile.

Anche il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire si è schierato contro dichiarando che «gli standard ambientali europei devono rimanere un fattore di incentivo, non distruttivo per la nostra industria. Sono in corso trattative sull’Euro 7 e sia chiaro: in questa fase, questo standard non è per noi conveniente. Alcune delle proposte che circolano sono eccessive. I nostri costruttori non saranno in grado di tenere il passo».

Il compromesso

In aprile sì è arrivati a un compromesso: l’Agves ha rivisto la sua proposta presentando limiti di NOx «tecnicamente raggiungibili» aumentando la tolleranza degli ossidi di azoto da 10 a 30 milligrammi per chilometro e la data di introduzione dell’Euro 7 è stata allontanata al 2027. Mentre in parte cedeva alle richieste delle case produttrici, la Commissione doveva però tenere conto anche del “fronte dei Nove” (Austria, Belgio, Danimarca, Grecia, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Malta e Paesi Bassi): nazioni che spingevano affinché le vendite di auto con motore a scoppio venissero bloccate già dal 2030 e che hanno scritto alla Commissione chiedendo di fissare una data valida per tutti i 27 membri dell’Unione.

Del resto, sono ormai tanti i Paesi che hanno stabilito quando fermare le immatricolazioni di veicoli endotermici: la Norvegia entro il 2025; Regno Unito, Danimarca, India, Islanda, Israele, Svezia, Paesi Bassi entro il 2030; la California e la Cina entro il 2035.

Nel 2019 la Francia aveva fissato lo stop al 2040 e probabilmente dovrà allinearsi al nuovo obiettivo europeo. Anche 26 grandi corporation (tra cui Coca Cola, Ikea, Sky, Volvo, Uber e le italiane Enel X e Novamont) hanno trasmesso il 26 aprile un appello alla Commissione affinché fermi la vendita di auto inquinanti entro il 2035.

Lo stop alla benzina

Così si è arrivati alla proposta dello stop delle immatricolazioni di auto a benzina a partire appunto dal 2035. Nulla di sconvolgente, dunque. Neppure per i produttori di automobili, visto che in molti hanno già fissato una data per la fine delle vendite di questo tipo di veicoli: Michael Jost, Strategy Chief di Volkswagen, secondo gruppo al mondo dopo Toyota, ha annunciato lo stop alla commercializzazione di nuove auto diesel e benzina a partire dal 2026; la General Motors, ha dichiarato che a partire dal 2035 venderà solo auto elettriche; la Ford e la Volvo lo faranno dal 2030 in Europa.

Più prudente Stellantis, la società nata dalla fusione tra Psa e Fca: nel corso dell’Electrification day 2021, l’amministratore delegato Carlos Tavares ha detto che il gruppo punta al 70 per cento di vendite di veicoli elettrificati entro il 2030.

PSA chairman Carlos Tavares smiles during a meeting at the ministry of economy in Berlin, Germany, 5 April 2017. The summit of federal government and states will concern itself with the acquisition of Opel through the French automotive producer PSA. Photo by: Michael Kappeler/picture-alliance/dpa/AP Images

Tanto clamore per nulla? No, perché la trasformazione dell’industria dell’auto, in particolare quella italiana rimasta indietro sull’elettrificazione, sarà tutt’altro che indolore. In un’altra occasione Tavares ha descritto così la situazione: «La brutalità con cui il cambiamento viene imposto a questo settore è un eufemismo. È completamente dall’alto verso il basso».

Tavares ha sottolineato che la vendita di auto elettriche, considerando l’alto costo delle batterie, di ricerca e sviluppo, non consentono gli stessi margini di guadagno delle auto tradizionali. Come confermano i dati elaborati dalla società di consulenza AlixPartners, il gruppo propulsore di un’utilitaria elettrica del segmento B costa 7.800 euro in più rispetto a quello di un’analoga vettura a combustione (+168 per cento) mentre nel segmento D (tra i 4 e i 5 metri di lunghezza) la differenza è di 11 mila euro (+160 per cento).

I costi dovrebbero allinearsi solo per le vetture di classe superiore a partire dal 2028. «Se non siamo in grado di proteggere i margini su ogni veicolo elettrico che vendiamo rispetto a quanto succede oggi con le vetture convenzionali, ci saranno ristrutturazioni e conseguenze sociali», ha avvertito il manager portoghese.

Chi paga il conto della rivoluzione

In particolare saranno le fabbriche che producono propulsori e relativi componenti a soffrire di più. In Europa ci sono circa 126 gli impianti che assemblano motori, cambi e trasmissioni e che danno lavoro a 112 mila persone.

Gli stabilimenti italiani di Stellantis che producono i gruppi propulsori sono cinque: Mirafiori, Pratola Serra, Termoli, Cento, Verrone. Tutti destinati a trasformarsi. Uno, quello di Termoli, produrrà le batterie, mentre a Melfi verranno realizzate quattro nuove vetture elettriche multibrand del segmento medio. La rivoluzione è iniziata e nei prossimi 14 anni scopriremo quanti lavoratori ne dovranno pagare il prezzo.

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