Il 23 novembre 2019 almeno 18 persone morirono annegate a meno di un miglio dalla costa di Lampedusa, nel naufragio di un peschereccio in legno su cui viaggiavano circa 170 migranti in fuga dalla Libia. È stato uno dei più gravi disastri marittimi in acque italiane degli ultimi anni, ma le autorità non ne hanno mai chiarito l’esatta dinamica.

La Guardia Costiera, che intervenne con quattro motovedette salvando 149 superstiti, spiegò in un comunicato ufficiale che il barcone si era capovolto “subito dopo” l’arrivo dei soccorsi, «verosimilmente per le cattive condizioni meteo marine».

A distanza di tre anni dalla tragedia, Domani ha avuto accesso al rapporto interno della Guardia Costiera sull’incidente, che smentisce in parte questa versione. E le testimonianze dei sopravvissuti attribuiscono alla Guardia Costiera un ruolo nel naufragio rimasto finora nascosto.

Il rapporto a firma del comandante della capitaneria di porto di Lampedusa Marco Ferreri riporta la tempistica dell’incidente: dopo la segnalazione di un barcone in difficoltà ricevuta alle ore 16, la Guardia Costiera inviò due motovedette rispettivamente alle 16:10 e alle 16:30. Il naufragio, scrive Ferreri, avvenne alle 16:50 “durante le operazioni di recupero”: non “subito dopo” l’arrivo dei soccorsi come indicato nei comunicati ufficiali. Cosa è successo, dunque, nei quaranta minuti trascorsi tra l’intervento della prima motovedetta e il ribaltamento del barcone?

Il sopravvissuto 

(AP Photo/Mauro Seminara)

Yonas - nome di fantasia - è un rifugiato eritreo poco più che ventenne sopravvissuto al naufragio. Oggi vive in Germania, e ha accettato di raccontare a Domani la sua versione sull’incidente a condizione di mantenere l’anonimato. Yonas ricorda perfettamente il momento in cui vide avvicinarsi i soccorsi: “Avevamo passato due giorni interi sul barcone, eravamo affamati, esausti. Ed eravamo davvero contenti perché stavano venendo ad aiutarci”.

La prima motovedetta giunta sul posto agganciò con dei cavi la fiancata sinistra del barcone, prendendo a bordo “cinque o sei” naufraghi. “Ma le onde erano altissime, e le due barche continuavano a sbattere l’una contro l’altra”. In questo modo, dice Yonas, i cavi entrarono in trazione rompendo un pezzo dello scafo in legno: “Nel giro di dieci minuti la barca era piena d’acqua”. In seguito all’affondamento del barcone la capitaneria di porto di Lampedusa ordinò l’intervento di altre due motovedette. Una dinamica confermata in termini simili da altri due testimoni del naufragio.

Nel novembre del 2019 il secondo governo Conte si era insediato da poche settimane, e Luciana Lamorgese aveva preso il posto di Matteo Salvini al ministero dell’interno. Un periodo caratterizzato da un impegno ridotto dell’Italia nelle operazioni di ricerca e soccorso in alto mare. In questo contesto, i barconi provenienti dal Nord Africa venivano abitualmente intercettati dalla Guardia Costiera a poca distanza dalla costa italiana, e trainati o scortati in porto. In condizioni meteorologiche avverse, la risacca delle onde, che sotto costa colpiscono da tutte le direzioni, e la fragilità dei barconi, rendono queste operazioni particolarmente pericolose.

Poco più di un mese prima del naufragio di novembre, un’altra imbarcazione di migranti era affondata a poca distanza da Lampedusa, uccidendo almeno tredici donne.

Secondo Vittorio Alessandro, un ammiraglio in congedo ed ex portavoce della Guardia Costiera, l’Italia e altri stati costieri come Malta hanno adottato una strategia in cui “si cerca di non dichiarare formalmente la situazione di pericolo, perché in questo modo viene meno l’impegno di procurare un porto di sbarco sicuro”.

Una scelta rischiosa, perché “le imbarcazioni di migranti sono in una situazione di pericolo dal momento stesso in cui partono”. Alessandro denuncia “il pregiudizio di diffidenza” che si è venuto a creare nei confronti degli equipaggi di soccorso: “Io escludo che la guardia costiera sia venuta meno ai propri compiti istituzionale, credo che abbia lavorato in silenzio, come sta facendo adesso. Ma una qualunque pressione nei confronti delle organizzazioni deputate al soccorso è indebita e foriera di grandi rischi”.

La versione della Guardia costiera 

Contattata da Domani, la Guardia Costiera ha negato di aver diffuso una versione fuorviante sul naufragio del 23 novembre, dicendo che il comunicato ufficiale “riporta chiaramente la presenza sul posto delle motovedette al momento del capovolgimento del barcone”. Ha confermato di aver effettuato la manovra descritta dai sopravvissuti, spiegando che “in situazioni operative complesse… i cavi possono essere utilizzati per avvicinare il mezzo alla motovedetta, affiancarlo e procedere, così, al trasbordo dei naufraghi”.

La richiesta di accesso alla documentazione completa sull’incidente è stata tuttavia negata. La pubblicazione dei documenti, sostiene in una nota il Comando generale delle capitanerie di porto, «metterebbe in pericolo la sorveglianza delle reti di contrabbando e traffico di esseri umani nel Mediterraneo».

La Guardia Costiera ha spiegato inoltre di aver messo l’intera documentazione “a disposizione dell’autorità giudiziaria competente”.

Per l’autorità giudiziaria l’unico responsabile del naufragio del 23 novembre è il tunisino Helmi El Loumi, ventiduenne all’epoca dei fatti, che secondo le testimonianze dei sopravvissuti pilotava il barcone.

Il 13 ottobre del 2021 la corte d’appello di Palermo ha condannato El Loumi a otto anni di carcere per naufragio colposo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Pochi giorni dopo, nel carcere di Sciacca, il giovane ha tentato il suicidio ingoiando lamette da barba, ha raccontato a Domani la sua ex avvocata.

La sentenza contro El Loumi è passata in giudicato, ma il tribunale di Palermo ha negato a Domani l’accesso al fascicolo del procedimento, un documento pubblico.

Processi approssimativi

(AP Photo/Mauro Seminara)

Maria Giulia Fava, avvocata e attivista del circolo Arci “Porco Rosso” di Palermo, che assiste i migranti incarcerati per aver pilotato un barcone, ritiene che non ci sia stata un’indagine adeguata sulle reali responsabilità per il naufragio: «Contro i presunti scafisti si fanno processi molto duri e approssimativi, pur di trovare un colpevole per lavare la coscienza dell’Italia e dell’Europa, vere responsabili dei naufragi con le loro politiche migratorie di morte».

Secondo uno studio di Porco Rosso, sono più di 2500 i migranti arrestati in Italia negli ultimi dieci anni con l’accusa di essere scafisti. Quasi tutti, spiega Fava, sono richiedenti asilo senza alcun legame con le organizzazioni di trafficanti.

El Loumi, con cui gli attivisti di Porco Rosso intrattengono una corrispondenza epistolare, gode adesso di buona salute ed è detenuto a Ragusa, “ma sa di essere un capo espiatorio”, conclude Fava.

Yonas, il rifugiato eritreo sopravvissuto al naufragio, ricorda El Loumi come “un migrante tra gli altri”. “Si è limitato a guidare, e forse per questo non ha pagato per il viaggio. È quello che ti dicono i trafficanti: se guidi, vai gratis”.


Quest'inchiesta è stata realizzata con il supporto di Investigative Journalism for Europe"

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