Aprile è il più crudele dei mesi, sappiamo già da Thomas Eliot. Ma quest’anno la destra al governo si è messa di buona lena per confermare l’assioma del poeta di Terra desolata.

Dalle nostalgie di Ignazio La Russa (Dio salvi Mattarella) alle teorie razziste sulla «sostituzione etnica» del cognato della premier, fino ai manager pubblici che fanno loro il discorso del Duce sull’omicidio Matteotti e all’incapacità di pronunciare la parola «antifascista», Giorgia Meloni e i suoi ministri hanno mostrato la natura illiberale di chi ha vinto le elezioni di settembre. Non solo.

Le modeste proposte di economia pubblica presentate nel Def, le posticce politiche sul lavoro, i balletti preoccupanti sul Pnrr hanno acceso dubbi anche in chi, in Italia e in Europa, crede(va) che l’orizzonte di questo esecutivo sia quello di fine legislatura.

Non è invece affatto detto che il governo arrivi fino al 2027. Un fallimento sul piano nazionale di ripresa e resilienza, nuove spaccature con i partner europei sulla gestione dei fenomeni migratori, possibili crisi dello spread e del debito e rovesci elettorali possono accorciare, di molto, il tempo di permanenza di Meloni a Palazzo Chigi.

In questa prospettiva non chimerica le opposizioni che oggi si muovono in ordine sparso hanno un dovere politico (e civile) di fronte ai loro possibili elettori: quello di farsi trovare pronte. In caso di collasso della peggiore maggioranza della storia repubblicana devono essere in grado di presentarsi con un’alleanza che sia davvero competitiva con la destra.

«Da soli non si vince» è un postulato che il centrosinistra dovrebbe conoscere a menadito, visto che negli ultimi trent’anni è riuscita a prevalere alle politiche nazionali solo quando si è presentata unita, e in una coalizione ampia. Come impone tra l’altro la legge elettorale vigente. È vero che sarà difficile, difficilissimo per Schlein, il pacifista Giuseppe Conte, i radicali Bonelli e Fratoianni e l’irrequieto Calenda trovare le convergenze per un’agenda comune.

Ma sarebbe demenziale posticipare l’inizio di un dialogo a dopo le Europee, dove i partiti andranno a briglie sciolte a causa del proporzionale. Mentre il governo progetta riforme presidenziali che possono sconvolgere l’equilibrio dei poteri, l’Italia rischia di scivolare verso forme di democratura non-liberali.

Non è tempo di cincischiare nei pur rispettabili distinguo (quelli in politica estera sono i più seri), o negli scontri interni di cui la sinistra è campione del mondo. Bisogna cominciare a confrontarsi su proposte e temi che possono aggregare, come il salario minimo, la battaglia contro la precarietà e le diseguaglianze, quelle sui diritti e la sanità. Iniziare dunque a discutere di convergenze possibili, abbandonando la campagna elettorale permanente che infetta ogni dialogo. Perché senza alleanze la fine è nota. E fa paura.

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