La spinta finale arriva con il no di Rifondazione comunista alla terza Finanziaria del governo dell’Ulivo. Le prove generali vanno però in scena un anno prima. E sempre sui conti pubblici.

«Fu la famosa battaglia delle 35 ore, l’orario di lavoro settimanale sul modello francese che Rifondazione voleva a tutti i costi. Non che io fossi contrario per principio, semplicemente era prematuro per l’Italia. Ma non era il vero nodo. Bertinotti, da ex sindacalista, intendeva solo competere con i sindacati sfidando apertamente l’intesa tra questi e il governo. La tensione portò all’apertura di una vera e propria crisi, al punto che lo stesso Pds voleva le elezioni. E io annunciai la mia intenzione di dimettermi. Fu la marcia Perugia-Assisi, con i fischi, a fermare Bertinotti e a metterlo di fronte al fatto che non c’era alternativa. E che le sue scelte stavano spaccando anche il suo mondo. Eravamo ancora nella comune cornice della sfida per l’euro, la rottura non conveniva neppure a lui. Fu proprio allora che Indro Montanelli mi consigliò di mangiare bistecche di tigre per prepararmi alla battaglia in aula con Bertinotti. Le bistecche di tigre non servirono, né le servimmo quando lo invitai a casa nostra, a Bologna. Cucinò Flavia: tortellini, lesso e lambrusco. Montanelli uscì soddisfatto dicendomi, forse con sottile ironia: “Mi sono sentito come a casa di un mio professore di liceo”».

Scontro infinito

Dodici mesi dopo non sarebbero state sufficienti neppure le bistecche di tigre. La condanna è senza appello. Le 35 ore non sono arrivate e il sostegno di Rifondazione alla manovra del governo non c’è. Fine del gioco.

Il 9 ottobre 1998 l’esecutivo cade in aula per una precisa scelta di Prodi che, unico caso tra le innumerevoli crisi italiane, decide di rimettersi al parlamento per il giudizio finale.

Una scelta che alcuni suoi compagni di viaggio, D’Alema tra questi, ritengono testarda («Io cercai di salvarlo» scrive l’ex segretario dell’allora Pds in una lettera al Corriere della Sera nel 2014).

La replica di Prodi è sempre la stessa: «Solo il parlamento può essere l’arbitro della politica del paese. Un governo che rifiuta il giudizio del parlamento diventa un governo fantoccio».

Il pallottoliere

E poi c’è quell’immagine, che a tanti anni di distanza ancora non si riesce a cancellare, di un «pallottoliere» sbagliato, di una previsione errata dei numeri in parlamento elaborata da Arturo Parisi: «Non ci fu alcun errore nei nostri conti, nessun pallottoliere sbagliato. Con Parisi dicevamo: “Si perde di uno”. E così fu. Eravamo nel cortile di palazzo Chigi, io, Parisi e Antonio Di Pietro. La fotografia di quel momento è ben chiara nella mia mente. C’era un incendio sul tetto di palazzo Theodoli. Stavamo seguendo l’intervento dei vigili del fuoco e discutevamo in modo analitico sui conti del voto che si sarebbe svolto il giorno dopo.

Non sussisteva ormai alcun dubbio: dopo il rifiuto dell’onorevole Pivetti di venire a votare, la sorte del governo era segnata. Per un solo voto. Infatti la sfiducia passò per 313 voti contro 312. Le nostre previsioni si erano rivelate corrette. Io non capisco come si possa speculare su queste cose. Non è come un voto segreto che si presta a trame o proiezioni sbagliate. La fiducia è un sì o un no a viso aperto. Ero andato al governo per realizzare delle cose e potevo farlo solo se sostenuto dal Parlamento. Penso ancora che l’Italia sia una repubblica parlamentare e che il governo non possa aggirare le Camere. Il nostro modo di pensare stupì molti. Ci consideravano dei dilettanti della politica, gente che non conosceva l’abc.

Quindi, seguendo il loro schema mentale, pensavano: se uno chiede la fiducia è perché è sicuro di averla. Se non ce l’ha, ha sbagliato i conti. Mi tiravano per la giacchetta in tanti: “Se ti fai sfiduciare un secondo incarico non te lo daranno mai”. Ma con noi lo schema era totalmente cambiato». Quindi: 312 voti favorevoli e 313 contrari. La prima crisi consacrata in Aula della storia della Repubblica porta la firma di Rifondazione comunista, che ritira l’appoggio esterno. Il leader di quel partito è Fausto Bertinotti.

Bertinotti, nessuno sconto

Nella sua avventura politica, il Professore si ostina a imbarcare la sinistra radicale per due volte, seppure con formule diverse. Prima con la desistenza, poi con una vera alleanza.

Perché senza non è possibile governare, ma in due governi appunto, quella sinistra lo affossa, sebbene in compagnia di altre forze interne ed esterne al palazzo. A decretare il fallimento del governo dell’Unione, dieci anni dopo, sono infatti, soprattutto, il ritiro dell’Udeur di Clemente Mastella e la campagna acquisti di Forza Italia.

Ma Rifondazione gioca sempre e comunque una partita altra, rispetto a Prodi. Bertinotti rivendica di aver mandato in frantumi l’esecutivo dell’Ulivo aggiungendo pure, in svariate interviste, che lo rifarebbe.

Addio all’Unione

E al termine dell’esperienza dell’Unione ne dichiara apertamente «il fallimento»: «Quello di Prodi è il miglior governo morente». Parole che compromettono ogni rapporto.

«Rimasi offeso da quei toni. Ho sempre ritenuto che sia compito di una democrazia portare in una cultura di governo anche le ali estreme. Ma le ambizioni personali di Bertinotti rovinarono tutto. Non si sentiva protagonista, evidentemente. Poi si è perso, gli scissionisti sono sempre destinati a scomparire. Vedo che sta capitando anche a Matteo Renzi. Purtroppo c’è questo vizio a sinistra, non si riesce mai ad andare d’accordo. Il centrodestra aveva altri collanti, noi no.

Di colpo venne disfatta la tela pazientemente intessuta nel Paese con l’Ulivo. Fu una delusione forte e si è dimostrato fino a ora impossibile ricostruire l’atmosfera che l’Ulivo aveva creato: l’entusiasmo non è una merce che si trova in liquidazione. La politica è innanzitutto passione, poi anche razionalità. Finì tutto così. Malamente.

E devo attribuire una responsabilità enorme a chi ha voluto questa rottura. Perdemmo la nostra credibilità, è un peso che è rimasto.»

Questo testo è tratto dal libro Strana vita, la mia, in uscita oggi per Solferino

 

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