Partiamo dal fondo. Da tempo la classe politica conosce un discredito che nessuna contromisura è riuscita sinora a contrastare e a poco serve rinverdire stagioni passate, e nomi e pagine di una classe dirigente oggetto anche di accuse severe, ma esente da critiche sul volume del portafoglio o lo stile di vita.

Ora, guai a fare l’agiografia di un passato dove scandali, tangenti e biografie inquinate hanno collassato un sistema che la magistratura da sola non avrebbe avuto la forza di scardinare.

Detto ciò, per capire il come e il perché siamo precipitati dove stiamo bisogna considerare tre altri elementi destinati a condizionare qualità e prestigio della democrazia: la fragilità di un pensiero attrezzato al contesto storico; i criteri di formazione e selezione del ceto politico; il ritorno in troppi casi a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. In passato non sono mancate censure su ciascuna di queste fratture senza però che si evidenziasse la concatenazione dei processi, insomma il loro dipendere l’uno dall’altro. Anche qui sapendo che sarebbe un errore far di tutta un’erba un fascio (mai proverbio fu più aderente allo spirito dei tempi!).

Vagando per l’Italia incrocio militanti splendidi e circoli del Pd tenuti aperti per la forza di volontà dei tanti che continuano a credere in una politica vissuta, gli stessi che in questi giorni nelle feste e online raccolgono migliaia di firme per una legge sul salario minimo.

Tornando al problema, il punto è che le vecchie appartenenze non erano solo un aggregato di alleanze e strategie. O meglio, lo erano ma non esaurivano lì la funzione di serbatoi e animatori della costruzione democratica una volta archiviata la parentesi del fascismo.

Erano forze consapevoli che l’edificio istituzionale aveva bisogno di una classe dirigente – un ceto politico – espressione dei corpi sociali che partiti rigenerati si candidavano a promuovere. In altri termini, la forma stessa di quei partiti, le loro strutture operative, il legame coi territori, e non solo con le grandi urbanizzazioni, costituivano l’intelaiatura di una ritrovata libertà e democrazia.

Capitalizzare

Ma appunto per questo la leggerezza con le quali dal centro alla sinistra si è pensato di abbandonare quel modello privilegiando il destino personale di singole leadership con l’effetto di anteporre alla rifondazione del soggetto collettivo l’approdo al governo è stata una colpa grave. Il punto è che una volta convertito il partito in un comitato elettorale permanente, sono venuti a mancare gli affluenti di una società a sua volta meno decifrabile e coesa. Per capirci, radicare una qualche forma di rappresentanza dentro le pieghe della precarietà è diverso dall’organizzarsi nei luoghi fisici della classe operaia o del pubblico impiego tradizionale.

Di fronte a quella novità il traguardo non è stato riorganizzare il proprio campo, ma attrezzarsi al nuovo obiettivo: capitalizzare il massimo dei voti assieme al numero maggiore di eletti. A quel punto tutto o quasi – organismi dilatati e pletorici, staff di fedelissimi, consulenze comunicative più o meno azzeccate – si è modellato sullo stampo di forze e movimenti sempre più simili a macchine del consenso. Giunti lì la formazione delle classi dirigenti poco aveva da chiedere alla sfera del pensiero, dell’analisi storica o delle prospettive future perché doveva concentrarsi su profili più interni a ottimizzare i messaggi della propaganda al ritmo dei social. Chiudere i centri studi e moltiplicare gli uffici stampa rifletteva la deriva.

In sintesi, culture sempre meno indotte a collocarsi nel proprio tempo (simbolico agli albori il richiamo alle “primarie” come tratto identitario del Partito democratico), sottovalutazione della dipendenza tra quelle culture e le forme della partecipazione fino ai nuovi requisiti di fedeltà nella selezione dei gruppi dirigenti: il combinarsi di questi fattori ha contribuito allo stato di cose esistenti. Con un corollario che poi tale non è.

Questa regressione non ha riguardato solamente la politica, ma più in generale le élite nell’economia, nel potere accademico, nell’informazione. Motivo a sostegno dell’idea che senza una sinistra solida nella struttura oltre che nei consensi gli obiettivi di solidarietà e giustizia sono destinati a infragilirsi dinanzi a una destra che dalla distruzione della sanità pubblica al taglio del reddito di cittadinanza mostra una concezione della povertà come colpa da espiare. Quanto al terzo elemento tra le cause del discredito credo sia l’aver cancellato ogni forma di finanziamento pubblico all’iniziativa politica.

Cedimento al populismo? Sì, ma a essere onesti, anche la difficoltà a reggere l’urto di scandali e malversazioni tollerate troppo a lungo.

Alternative

Rimane lo sbrego con le sue conseguenze. Senza denaro e strumenti ordinari l’agibilità politica in qualunque partito si riduce quasi solamente alla presenza nelle istituzioni anche perché da lì si attingono le risorse a sostegno di una presenza capillare e organizzata.

Ma qui si colloca l’anello ultimo della catena che conduce a quell’accesso patrimoniale denunciato all’inizio. Col formarsi di vere e proprie tabelle e relativi tariffari che candidate e candidati, se collocati in posizione eleggibile, sottoscrivono all’avvio della campagna elettorale. Sia chiaro, sola e legittima forma di sostegno alle spese necessarie di partiti altrimenti costretti a reperire quelle fonti di sostentamento tramite canali diversi e non sempre trasparenti.

Le alternative? Direi siano essenzialmente due. La prima è disporre di tanta ricchezza quanta ne basta a fondarsi un partito-azienda disposto a soddisfare richieste e bisogni del leader-tesoriere-factotum. Ma non è roba per noi. L’altra è riconoscere gli errori dell’ultimo trentennio e cominciare a porvi rimedio a partire dalla pessima legge elettorale che abbiamo votato e, seppure pentiti, non abbiamo fatto molto per cambiare quando avremmo dovuto restituire agli elettori il diritto a scegliere da chi essere rappresentati.

E prima ancora l’abbaglio di aver messo mano alla Costituzione con una spallata di maggioranza creando un precedente pericoloso che oggi la destra usa a vantaggio suo con quell’autonomia differenziata destinata a rendere il paese più iniquo e diseguale. E infine recuperando una modalità regolata e vigilata di contributo pubblico alle attività di partiti e movimenti presenti nelle istituzioni. Sarebbe questa l’ennesima eresia o provocazione rivolta a quel pezzo di paese che non scollina la quarta settimana del mese? Forse no.

Autonomia della politica

Azzardo che se spiegata senza retorica e con atti conseguenti a darne conto potrebbe persino restituire alla categoria malconcia del “politico” quel pizzico di autonomia sacrificata in passato sull’altare dell’ultimo sondaggio senza per altro averne beneficiato. Il che, detto tra noi, almeno un po’ dovrebbe farci arrossire.

Forse davvero il nuovo corso impresso dall’ultimo congresso del Pd e la linea che ne è scaturita possono spuntarla nell’impresa che non si è stati capaci di realizzare prima. Sapendo che per riuscirci la stagione avviata dovrà sposare la radicalità necessaria a scardinare rendite e conservazioni.

D’altra parte contro questa destra un po’ incapace, un po’ cattiva e un po’ bugiarda il momento di osare è ora.

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