Da un lato la liberazione di Cecilia Sala, grazie alla trattativa con l’Iran, e la presenza all’insediamento di Donald Trump, con i galloni di unica leader europea a vedere dal vivo la cerimonia. Dall’altro i problemi giudiziari della ministra del Turismo, Daniela Santanchè, con il dilemma delle dimissioni, e le richieste del terzo mandato per i presidenti di regione, a cominciare da Luca Zaia.

Dal Medioriente agli Stati Uniti, Giorgia Meloni si appunta sul petto le stellette di un’immagine internazionale tirata a lucido. Un magic moment, si potrebbe definire. Eppure, la gioia per glorie fuori dai confini nazionali si spegne di fronte ai grattacapi domestici.

Ci sono le fatiche del quotidiano con le eterne voci di rimpasto che inseguono le ambizioni meloniane di essere una leader incontrastata. Oltre al nodo-Santanchè resta vivo il sogno-Viminale di Matteo Salvini, che comporta il rischio di dover spostare l’attuale ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi.

Il problema di Santanchè

La ministra del Turismo, rinviata a giudizio per concorso in falso di bilancio, è per il problema numero uno. Meloni si è imbarcata per gli Stati Uniti, direzione Capitol Hill, con il tormentone Santanchè ed è tornata con la stessa musica. E una domanda: che fare?

L’imprenditrice e politica di Fratelli d’Italia ha superato la buriana delle prime ore, quelle subito dopo la decisione dei giudici. Meloni ha masticato amaro per tenere buoni i rapporti con il presidente del Senato, Ignazio La Russa, sodale politico della fondatrice di Visibilia, incontrato ieri a palazzo Chigi «per un incontro programmato da tempo», come trapelato. Ed è servito a fare il punto della situazione.

La premier ha fatto filtrare lo spin comunicativo del malumore e della freddezza. Ma agli atti c’è che nei primi giorni non ha chiesto le dimissioni a Santanchè. Le ha concesso un supplemento di fiducia, senza dirlo. La partita, secondo una delle versioni più accreditate nel governo, è nelle mani della Corte Cassazione che il 29 gennaio dovrà decidere se lasciare a Milano il procedimento, un altro riguardante la ministra, sulla presunta truffa all’Inps per la cassa Covid o spostarlo a Roma, come hanno richiesto i legali di Santanchè. In questo secondo caso i tempi si allungherebbero. E la poltrona da ministra sarebbe salva per un bel po’.

Se invece il fascicolo dovesse restare a Milano, la premier sarebbe intenzionata a “imporre” le dimissioni alla ministra. E lo avrebbe anticipato a La Russa nel faccia a faccia.

Il motivo? Meloni non vuole subire – in poche settimane – un secondo rinvio a giudizio della titolare del Turismo, che peraltro riguarderebbe risorse pubbliche. C’è poi l’ipotesi circolata di un’accelerazione fin dalle prossime ore. «Sono a Milano per una riunione. Non ho nulla da aggiungere. Sono cose surreali», ha detto Santanchè, smentendo ancora il passo indietro. Dopo poco il ministero ha confermato il suo viaggio istituzionale a Gedda, in Arabia Saudita.

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha poi rotto il silenzio dei big di FdI: «Il rinvio a giudizio non vuol dire nulla. Una persona è innocente fino al terzo grado di giudizio».

A bordo campo si sta scaldando Gianluca Caramanna, deputato di Fratelli d’Italia e consigliere di Santanchè al ministro del Turismo, materia che padroneggia da anni. Lontano dai riflettori c’è un altro nome che dentro il partito ha un suo standing: Manlio Messina, vicecapogruppo a Montecitorio ed ex assessore al ramo in Regione Sicilia. Ma si ragiona su ipotesi, che diventano un pantano per gli ardori entusiastici della premier reduce dalle cerimonie internazionali.

L’eventuale addio di Santanchè significherebbe la terza sostituzione nel governo in cinque mesi, dopo la Cultura con l’arrivo di Alessandro Giuli al posto di Gennaro Sangiuliano e il Pnrr con Tommaso Foti che ha rimpiazzato Raffaele Fitto. Di fatto un rimpastino a pezzi, portato avanti a colpi di blitz. E poi restano da riempire altre caselle, in particolare quella di viceministro ai Trasporti, lasciata sguarnita dal trasloco di Galeazzo Bignami come capogruppo di FdI alla Camera.

A scaldare i motori è un altro fedelissimo della premier, Salvatore Deidda, apprezzato nelle vesti di presidente della commissione Trasporti a Montecitorio. Significa avviare la danza per i rinnovi dei presidenti delle commissioni nei due rami del parlamento con una serie di avvicendamenti. E un pericolo in agguato: spargere ulteriore veleno tra alleati.

Tra le varie operazioni c’è quella di portare un meloniano, anzi una meloniana, alla presidenza della commissione Bilancio alla Camera. Bignami lo ha chiesto dopo la manovra. Ylenia Lucaselli è la prescelta (a meno che non vada in una posizione di sottosegretaria) al posto di Giuseppe Mangialavori di Forza Italia.

Regioni e province

Ma se gli incarichi sono sempre problematici da distribuire, ci sono le questioni politiche. La lunga marcia verso le regionali può essere sfiancante per i rapporti tra gli alleati.

Luca Zaia vuole amministrare ancora il Veneto e ha chiesto l’abolizione della regola che impone due soli mandati per presidenti di regione e sindaci. Salvini ha fatto all-in su questo punto, che occuperà l’agenda per un tempo piuttosto lungo. Resta da capire se la Lega sta bluffando. Mentre non può restare inevasa la richiesta dell’autonomia, che per Roberto Calderoli è un capitolo fondamentale.

E infine c’è un fronte aperto, quello internazionale più divisivo per la maggioranza. In aula alla Camera nelle prossime ore il ministro della Difesa Crosetto illustrerà le decisioni sugli aiuti all’Ucraina. La posizione del governo è stata confermata da Meloni nel recente incontro con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Ma non è un segreto che la Lega pretenda un cambio di approccio. Ancora di più ora che alla Casa Bianca si è insediato Trump, quantomeno tiepido nei confronti di Kyiv. E Matteo Salvini vuole seguirlo.

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