Ieri la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si è irritata perché Lilli Gruber l’ha indicata come espressione di una cultura patriarcale. Lei, donna, madre, cristiana e al comando del paese. Ha reagito sui social con una punta d’ironia pubblicando uno scatto con madre, figlia e nonna e un’eloquente frase: «Come chiaramente si evince da questa foto che ritrae ben quattro generazioni di “cultura patriarcale” della mia famiglia. Davvero senza parole».

La presidente potrebbe partire dal lessico, dal frasario per capire che già quello tradisce un architrave ideologico risalente al secolo scorso. Ha iniziato la sua avventura chiedendo di farsi chiamare “il presidente” e non “la presidente”. Al maschile. Si dirà è solo forma, quello che conta sono le risposte da dare al paese.

È una menzogna, la lingua non è neutra, tradisce un ordine valoriale per cui il maschile è la massima autorevolezza possibile che le donne possono darsi. «Lo scopo di queste raccomandazioni è di suggerire alternative compatibili con il sistema della lingua per evitare alcune forme sessiste della lingua italiana, almeno quelle più suscettibili di cambiamento», si leggeva in una ricerca sul tema curata da Alma Sabatini e pubblicata dalla presidenza del consiglio dei ministri nel 1987.

La presidente Meloni potrebbe tranquillamente consultarla sul sito della funzione pubblica, troverà all’interno un esempio che fa al suo caso. Si scrive “la presidente” e non “il presidente” per dare impulso a «un’ottica che partendo dalla donna metta in luce i lati lasciati finora in ombra dalla tradizionale ottica patriarcale».

La parola è un’azione vera e propria, «l’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione del pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e di chi lo ascolta», si leggeva. L’altro problema che Meloni non affronta è quello di una classe dirigente che di tanto in tanto offre scivoloni che, non di rado, denotano una certa arretratezza in tema di pari dignità tra i generi.

Patriarcato e dintorni

Iniziamo dal professore Alessandro Amadori, consulente del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, che in un libro pubblicato, nel 2020, come svelato ieri da Domani, dedicava un capitolo al tema: «Il diavolo è anche donna». Così scriveva: «Dietro la punta dell’iceberg dei femminicidi, sembra però esserci il grande corpo dell’iceberg costituito dal bisogno di sottomissione maschile (...) C’è una piccola, ma appariscente popolazione di donne, che approfitta di questa tendenza maschile alla sottomissione, e ne fa una vera e propria fonte di business».

Un altro pensatore della destra, di recente preso come modello, è il generale Roberto Vannacci che definisce come «moderne fattucchiere» le donne secondo cui «solo il lavoro e il guadagno possono liberare le fanciulle».

Ma poi ci sono i politici e i rappresentanti delle istituzioni. Iniziamo dalla Lega. «Quando vedo le sue immagini non posso non pensare alle sembianze di un orango», diceva durante un comizio Roberto Calderoli dell’allora ministra dell’Integrazione, Cecyle Kyenge.

Sono passati dieci anni da allora e oggi Calderoli è ancora ministro per gli Affari regionali. È ministro anche Matteo Salvini che ha collezionato voti e consensi soffiando sull’odio e la violenza verbale, nel 2019 di una donna, Carola Rackete, diceva: «Pure Carola mi ha denunciato, fra le tante denunce pure quella della zecca tedesca. Uno basta che la guarda in faccia, proprio qua doveva arrivare», diceva lo statista.

Un altro esponente di quella galassia politica è Vittorio Sgarbi, sottosegretario di stato alla Cultura. «Salame, zitta cretina, capra, studia», diceva a un’esponente del M5s, Alice Salvatore, che gli ricordava la sua condanna e i suoi trascorsi. Era il 2015. «Ora cara Boldrina, sia precisa, ci dica chi è lei… lei è la grammatica?

Lei stabilisce che non è giusto chiamare sindaco una sindaca e ministro una ministra? Ai ruoli non si applicano i sessi, rimangono tali e quali. Come la persona rimane persona anche quando si riferisce ad un uomo, non diventa persono. E tu sei una zucca vuota, una capra», diceva a Laura Boldrini, ex presidente della Camera.

A destra sono cresciuti culturalmente con Silvio Berlusconi, le sue battute, il suo credo, il sessismo elevato a sistema. Mai una presa di distanza, mai una critica, mai un distinguo da parte di Meloni e sodali. Nel febbraio 2013 l’ex cavaliere chiedeva a un’addetta alle vendite: «Lei viene?».

Lei rispose imbarazzata: «Sì, a costo zero». «E quante volte viene?», continuava Berlusconi con l’evidente doppio senso. Santanchè, oggi ministra intoccabile nonostante bugie e scandali, un giorno gli aveva ricordato che lui le donne le vedeva solo in orizzontale prima di tornare a difenderlo quando i destini politici si erano incrociati di nuovo.

Anche tra i parlamentari delle destre c’è chi spicca con dichiarazioni memorabili. «Se proprio ci tengono a fare educazione sessuale a bambini di 6 anni se la facciano nelle loro sedi di partito, non approfittino della scuola senza il consenso dei genitori obbligando dei bambini alle loro porcherie», ha detto di recente Rossano Sasso che è stato sottosegretario e oggi è deputato della Lega.

Qualche giorno fa, invece, la magistrata e deputata in quota Carroccio, Simonetta Matone, ci ha deliziato con una imperdibile massima: «I maschi disturbati non hanno mai madri normali». E i meloniani? Per capire la profondità di pensiero è sufficiente leggere le parole recenti del presidente del Senato, Ignazio La Russa: «Quando si realizzerà veramente la parità di genere? Quando una donna grassa brutta e scema rivestirà un ruolo importante. Perché ci sono uomini brutti grassi e scemi che ricoprono ruoli importanti. Credo sia un grosso complimento per le donne».

Sono solo alcune frasi e dichiarazioni di alleati, amici e sodali della presidente Meloni, non ne servono altre per fare i conti con un architrave ideologico intriso di sessismo e patriarcato. Per smontarlo una foto non basta.

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