«Ho visto sul palco della solidarietà a Israele il nostro amico Letta accanto a Salvini... c’è qualcosa che non funziona». All’assemblea nazionale di Art.1, il partito che ha contribuito a fondare, Massimo D’Alema parla di geopolitica. Questo gli hanno chiesto, dice, ma è noto che solo questo avrebbe accettato di fare, lui che si picca di non leggere i giornali italiani e di non occuparsi di cose del cortile nostrano. Al netto del fatto di aver contribuito a fondare il piccolo partito che qui si riunisce, di averlo sospinto verso il parlamento nella lista Liberi e uguali, poi al governo con i Cinque stelle. Dopo l’autoesclusione di Renzi dalla compagnia dei Socialisti e democratici, Art.1 ha puntato al «big bang». Che doveva essere: prima, rimettere insieme tutta la sinistra; poi, rimettere insieme la sinistra e i Cinque stelle; e ora, rimettere insieme i cocci di tutti.

Ma D’Alema stavolta davvero non si occupa di queste cose di casa nostra.  E lo si capisce subito anche dal fatto che nel suo tono non c’è la consueta ironia pungente, il sarcasmo, quel piglio che lo ha reso antipatico a mezzo mondo di sinistra e oltre, e irresistibile all’altra metà. Un tono che potrebbe essere effetto del contraccolpo che gli ha provocato l’aver appreso che la Feps, la Fondazione europea per gli studi progressisti che per anni è stata la sua casa, gli chiede indietro i 500mila euro erogati per un contratto ora contestato, e relativo agli anni 2013-2017. Un problema, secondo una nota di Feps, di irregolarità nella concessione del contratto. Lui respinge tutto ed è certo di poter dimostrare le sue ragioni. «Una vendetta personale e politica», dice.

Ma il suo tono dolente ha a che vedere con una vicenda, un cambio di mondo persino se possibile più profondo, e forse definitivo, di cui deve prendere atto. Fra Israele e Gaza si è scatenato l’inferno. Mentre parla, il presidente degli Stati uniti Biden dice «la mia amministrazione continuerà a coinvolgere palestinesi, israeliani e altri partner regionali per lavorare verso una calma sostenibile», «i palestinesi, anche a Gaza, e gli israeliani meritano ugualmente di vivere in dignità, sicurezza e protezione. Nessuna famiglia dovrebbe temere per la propria sicurezza all’interno della propria casa o luogo di culto». I democratici italiani ci hanno messo qualche giorno, e una valanga di morti, per dire – come fa Letta nel pomeriggio alla direzione del Pd, che quella di Israele è una «over reaction», ovvero «che sta andando oltre la legittima difesa».

Per l’ex ministro degli esteri quello che non funziona nell’immagine dell’«amico» Letta l’altro giorno sul palco del Portico d’Ottavia – a un passo dalla lapide del rastrellamento del ‘43 da dove il nuovo segretario del Pd ha giustamente voluto iniziare il suo mandato, citando le parole della senatrice a vita Liliana Segre – è la presenza di Salvini al suo fianco. Ma per il fatto che «noi rappresentiamo, voi rappresentate» dice, ricordando le distanze fra il suo partito e il Pd, «un punto di riferimento importante nella ricostruzione necessaria di una forza di sinistra nel nostro paese». Un riferimento che manca in questo paese, si sente anche sulle questioni internazionali. E qui siamo di fronte alla questione del medioriente, la madre di tutti i conflitti, anche di tutti i terrorismi. «Devo dire che una certa nostalgia di una forza di sinistra significativa nel Paese l’ho avuta anche in questi giorni dove di fronte alla tragedia palestinese ho sentito dire parole di circostanza in molte sedi importanti». «C’è una mancanza di verità», riprende, «nel modo in cui viene affrontata questa tragedia. Parliamo di una vicenda che era profondamente radicata nella coscienza politica italiana e non solo della sinistra, che sembra essere svanita nel corso del tempo». «L’aggressione di Hamas è inaccettabile», dice, ma l’analisi serve a «cercare di capire un po’ in profondità come esplode una crisi di questo genere, perché Hamas e gli islamisti sono diventati così forti, perché Erdogan è diventato un punto di riferimento irrinunciabile non per alcuni estremisti ma per milioni di arabi». «Io penso che Hamas diventi così forte perché i palestinesi si sentono traditi dal mondo occidentale. E sono stati traditi dal mondo occidentale, sono stati abbandonati. La leadership palestinese che si è spesa con una generosità quasi suicida in una politica di negoziato, di concessioni, di collaborazione, e non solo non ha ottenuto nulla ma è stata completamente delegittimata».
E qui torniamo a Letta che si è schierato con la politica di «due popoli due stati». Giusto. Ma D’Alema non può dire di essere stato convinto. «Oramai il discorso sulla politica dei due Stati lo possiamo dire noi perché qua fa parte del politically correct, ma per loro non ha alcun significato, è una pura finzione», «Tra il mare e il Giordano vivono milioni di persone, grosso modo metà ebrei metà arabi. Con una differenza. Gli ebrei vivono in grandi città moderne, gli arabi prevalentemente circondati da filo spinato, torrette, mitragliatrici». I palestinesi, si dividono in «cittadini arabi israeliani» che però «vivono in uno stato ebraico, sono cittadini di serie B con meno diritti» e i palestinesi «che vivono sotto occupazione». Parole parecchio più impegnative dell’invocazione dell’Unione europea per fermare la «over reaction» di Israele. E non saranno di certo le differenze sulla politica estera né sul medioriente a inceppare il tentativo di riavvicinamento fra ex dello stesso partito, né l’oggetto del discorso che questa mattina Letta terrà nell’assemblea di Art.1, ospite atteso e graditissimo. Ma certo quella di D’Alema non è «l’analisi» dell’«amico Letta».

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