In questi giorni sui social capita di leggere numerosi apprezzamenti per i sindacati francesi. Sono spesso portati ad esempio di chi “fa davvero gli interessi dei cittadini”, di chi rappresenta i lavoratori, di chi contrasta il governo invece di scendere a patti. Ma che cosa ci dice davvero la protesta francese sui sindacati francese e italiano, le loro differenze, il loro ruolo?

Il sindacato francese

Facciamo un passo indietro. In Francia sono due i sindacati più rappresentativi. Da un lato c’è la Cgt, storicamente vicina al partito comunista, che interpreta un sindacalismo più radicale e conflittuale. Dall’altro la Cfdt, il sindacato storicamente “riformista”.

Quest’ultimo, negli anni 1990 e 2000, ha giocato spesso il ruolo del mediatore tra le proposte governative su pensioni e lavoro e le istanze sindacali. Ponendosi come interlocutore dei governi di centrosinistra e centrodestra ha contribuito a edulcorare le proposte di riforma più indigeste.

Solo in questo modo Édouard Balladur è riuscito ad aumentare a quarant’anni la durata della carriera dei dipendenti privati, e François Fillon, dieci anni dopo, dei dipendenti pubblici. Il prezzo da pagare è stata la perdita di iscritti e di simpatizzanti, che sono invece andati a ingrossare le fila della Cgt. Ciononostante la Cfdt ha salutato con entusiasmo nel 2017 l’elezione di Macron, con il quale pensava di poter collaborare a modernizzare lo stato sociale francese.

La riforma di Macron

Fin da subito Emmanurel Macron ha però interpretato il suo ruolo in maniera diversa rispetto ai suoi predecessori. Per Macron l’investitura popolare che deriva dall’elezione diretta del capo dello stato equivale ad avere carta bianca per effettuare le riforme «nell’interesse e per conto dei francesi», come ha ribadito mercoledì in conferenza stampa.

Questa convinzione è stata spinta al punto da non ricercare mai il dialogo con le parti sociali, neppure quelle a lui meno avverse. Questa divergenza sul metodo, più che sul merito, è quello che ha spinto la Cfdt all’opposizione di Macron, ricompattando il fronte sindacale che era disunito fin dai tempi del “glorioso” sciopero del 1995.

In quell’occasione la Cgt era riuscita a bloccare per settimane metropolitane e treni, obbligando alla fine il governo Juppé alla marcia indietro proprio sul tema delle pensioni. Macron non ha mai cercato di rinnovare il dialogo sociale, ma esclusivamente di applicare una misura annunciata durante la sua campagna elettorale.

Per la Cfdt si è trattato di una doppia provocazione: non solo l'esecutivo non ha chiesto il suo parere, ma le ha voltato le spalle alla prima riforma sistemica. E così Cgt e Cfdt si trovano insieme a gestire la rabbia di milioni di francesi. Da un lato hanno instaurato le “casse di sciopero”, grazie alle quali integrano il salario di chi vede la propria paga decurtata da settimane di non lavoro. Dall’altro cercano di mantenere il controllo di una piazza sempre più radicalizzata e violenta, dove alcuni gruppi più esagitati rischiano di mettere in secondo piano la partecipazione pacifica di centinaia di migliaia di francesi.

Francia e Italia

La domanda che si pongono in molti è se il sindacato italiano sarebbe in grado di organizzare una protesta simile a quella francese. Le differenze sono molte. Manca innanzitutto in Italia un sindacato conflittuale e al tempo stesso rappresentativo come la Cgt. Così come la Cgt era legata al Pcf, la Cgil è sempre stata legata al Pci, che ha seguito nella sua trasformazione in Pds-Ds-Pd e quindi nella sua mutazione da più grande partito comunista d’occidente a partito social-liberale. Il Pcf (e con esso la Cgt) si sono invece sempre collocati a sinistra e all’opposizione del partito socialista francese, riformista e di governo.

C’è poi una questione di rappresentanza. Circa la metà degli iscritti Cgil sono pensionati: nella Cgt sono il 20 per cento. Quest’ultima rappresenta quindi in maggioranza chi in pensione deve ancora andare, e che quindi lotta per andarci il prima possibile e alle migliori condizioni possibili.

Nonostante queste differenze, è però indubbio che sia impossibile immaginare una sinistra senza sindacato, e un sindacato senza sinistra. Se non sulle pensioni, l’unità all’interno del sindacato, e poi tra sindacato e partiti di sinistra, è necessaria per contrastare le politiche di destra del governo Meloni, a partire dal tema del «fisco giusto», presentato giustamente come la «madre di tutte le battaglie» la scorsa settimana dal segretario della Cgil, Maurizio Landini.

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