La settimana si è aperta con le polemiche suscitate dalle dichiarazioni del consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi sulla necessità di un nuovo lockdown nazionale per contenere l’accelerazione del contagio causata dalla diffusione delle nuove varianti del Sars-CoV-2.

L’indagine rapida condotta dal Ministero della Salute insieme all’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha rilevato che nel nostro paese la variante del virus chiamata B.1.1.7, emersa nel sudest dell’Inghilterra a settembre 2020 e diventata dominante nel Regno Unito tre mesi dopo, è responsabile del 17,8 per cento delle infezioni registrate nelle giornate del 4 e del 5 febbraio.

Questo risultato preoccupa particolarmente poiché la B.1.1.7 è tra il 40 per cento e il 70 per cento più contagiosa rispetto alle varianti storiche e dunque è destinata a far risalire la curva del contagio. Ma quanto velocemente?

È difficile rispondere a questa domanda. Per farlo con ragionevole precisione sarebbe importante che l’Iss rendesse pubblici i dati di prevalenza della variante a livello regionale, probabilmente gli unici significativi. Infatti, come si legge nella relazione tecnica pubblicata lunedì, il valore nazionale è la media pesata dei valori regionali che vanno dallo 0 per cento fino al 59 per cento.

Dati segreti

Purtroppo la resistenza a condividere i dati sull’epidemia in modo dettagliato, seppure nel rispetto della privacy dei cittadini, è stato un tratto distintivo della gestione della pandemia in Italia. Le richieste di “aprire i dati” sono arrivate da più parti.

Da novembre la petizione #datibenecomune, che raggruppa la comunità open data italiana, chiede che i dati sull’epidemia comunicati dalle Regioni al Ministero della Salute e all’Iss vengano pubblicati in formato aperto e machine readable e ha ieri rinnovato la sua richiesta al nuovo premier Mario Draghi.

I data journalist italiani si sono dati da fare, inoltrando diverse richieste di accesso civico garantite dal Freedom of Information Act. Alcune di queste sono andate a buon fine, come quelle sui dati dei contagi tra studenti e lavoratori della scuola.

Altre, come quelle relative ai dati su età e comune di residenza dei contagiati o alle informazioni raccolte con il tracciamento dei contatti, sono invece cadute inascoltate.

Anche la comunità scientifica italiana ha chiesto a più riprese di poter ottenere i dati granulari dell’epidemia, ma senza successo. A novembre l’Istituto Superiore di Sanità ha infine firmato un accordo con l’Accademia Nazionale dei Lincei, ma a oggi quell’accordo non è ancora operativo.

Un gruppo di accademici riunito nell’associazione Lettera 150 ha recentemente presentato un’istanza di accesso ai dati relativi ai 21 indicatori con cui viene stabilito il colore delle regioni ed è in attesa di ricevere una risposta.

«Il contributo che potremmo dare se coinvolti riguarderebbe diversi aspetti. Non solo la formulazione di modelli in grado di tracciare i possibili scenari futuri dell’epidemia, ma anche l’individuazione dei luoghi a più alto rischio di contagio o di altri dati interessanti che ancora non raccogliamo», commenta Pierluigi Contucci, fisico matematico, professore all’Università di Bologna e membro dell’associazione Lettera 150.

I 21 milioni dimenticati

All’inizio di maggio del 2020 il Ministero dell’Università e della Ricerca pubblicava un bando per assegnare 21 milioni di euro del Fondo Integrativo Speciale per la Ricerca a progetti sulla Covi-19. I risultati erano attesi per luglio, tuttavia a oggi, quasi otto mesi dopo, non c’è alcuna notizia sull’esito del processo di valutazione e neanche un euro di quei 21 milioni è stato speso.
Le ricercatrici e i ricercatori italiani, dunque, non sono stati messi in condizioni di collaborare, ritenendo forse che le competenze rappresentate all’interno dell’Iss, del Comitato Tecnico Scientifico e della Fondazione Bruno Kessler fossero sufficienti a gestire l’epidemia nel miglior modo possibile. 
«La ricerca scientifica è un’impresa collettiva. Scommettere su poche persone, per quanto ben selezionate, è estremamente rischioso e poco lungimirante», commenta Contucci e aggiunge «l’epidemia è un processo di diffusione e i fisici e i matematici hanno molta esperienza nella modellizzazione di questo tipo di fenomeni. In assenza di dati disaggregati il nostro contributo è stato praticamente nullo».

Sulle varianti è andata diversamente in Francia, dove l’agenzia Santé Publique ha condotto due indagini rapide simili a quella italiana, la prima il 7 e l’8 gennaio e la seconda il 27 gennaio.

I risultati, anche a livello regionale, sono stati pubblicati nel bollettino settimanale sull’epidemia e condivisi preliminarmente con il gruppo di epidemiologi coordinato da Vittoria Colizza, una fisica laureata alla Sapienza di Roma oggi ricercatrice all’Institut national de la santé et de la recherche médicale a Parigi.

Sulla base di queste informazioni e grazie al modello messo a punto già lo scorso anno, Colizza e i suoi collaboratori hanno constatato che le restrizioni aggiuntive introdotte nel paese a gennaio hanno sì avuto effetto, ma non sufficiente a evitare che a fine marzo si raggiungano i 25.000 ricoveri a settimana.

Valutazioni sbagliate in Italia

In Italia il risultato dell’indagine sulla diffusione delle varianti è arrivato come un fulmine a ciel sereno, mentre si discuteva di come allentare le restrizioni.

Sabato sera il ministro Speranza ha firmato un’ordinanza per rimandare l’apertura degli impianti sciistici fissata per il giorno successivo.

La mattina dopo il leader della Lega Matteo Salvini ha dichiarato: «Spero che con il nuovo governo finisca la stagione degli allarmismi. Noi proponiamo che la comunità scientifica tutta si metta intorno a un tavolo, decida, numeri alla mano, e poi in base ai numeri e alle decisioni, comunichi».

La comunità scientifica italiana non vede l’ora di mettersi al lavoro non appena sarà messa in condizioni di farlo.

Tuttavia, se e quando succederà, non potrà raggiungere un accordo unanime, non è nella sua natura, ma proprio dal suo confronto interno potrebbero arrivare le idee di cui i politici hanno bisogno per prendere decisioni più informate possibile.

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