Mi chiamo Dario, ho 33 anni e ho iniziato il mio percorso di attivista trans* a Bologna. Sono decenni che in Italia aspettiamo una legge contro l’omofobia e la svolta è arrivata finalmente con la discussione in Parlamento della proposta di legge Zan, approvata alla Camera e pronta ad approdare in Senato: una legge per proteggere e tutelare dall’odio transfobico, che permetterà alle persone di sentirsi motivate e sicure nel farsi avanti e denunciare.

Il nostro paese è al primo posto in Europa per numero di crimini d’odio nei confronti delle persone transgender, al pari della Turchia. Secondo i più recenti sondaggi solo il 7 per cento delle persone Lgbtqi+ vittime di violenza transfobica hanno denunciato abusi alle forze dell’ordine e la quasi totalità di queste violenze viene intercettata solo dalle associazioni. Anche Papa Francesco si è di recente espresso a favore delle unioni civili di coppie omosessuali. Parole che non leggo come una vittoria perché l’atteggiamento della Chiesa non è propositivo nei confronti della comunità Lgbtqi+. Basti leggere le ultime dichiarazioni della Cei sul ddl Zan, o la posizione inflessibile rispetto alle fantomatiche “teorie del gender” che ritraggono tutta la comunità come un vero e proprio pericolo per famiglie e bambini.

La mia storia

Io sono stato fortunato. Sono nato e cresciuto a Modena da genitori tarantini che non mi hanno mai negato il loro supporto. Mamma e papà sono sempre stati “avanti”, e non avrei mai immaginato che si mettessero in discussione o che valutassero opzioni diverse da quelle che si erano prefigurati riguardo alla mia vita. Ma lo hanno fatto, e nel farlo hanno realizzato un proprio percorso di crescita e consapevolezza che li ha resi semplicemente più sensibili, più vicini, più fieri, più informati su temi fino a quel momento sconosciuti o mal rappresentati. Ma se le persone più vicine comprendono e sostengono, di contro è il giudizio altrui a fare male. Non si è mai preparati a domande invadenti e fuori luogo tipo: «Qual era il tuo nome prima?», «Sei operata/o?», «Mi fai vedere una foto di com’eri?», «Come fai sesso?». Ciò che può essere considerato pura e genuina curiosità, si traduce in una svalutazione delle emozioni e delle esperienze della persona trans*.

Il deadname, il nome assegnato alla nascita, è una delle cose che più scatena la curiosità, e che riporta l’attenzione su un periodo passato della vita togliendo importanza all’identità nella quale ci si riconosce e al nome di elezione, simbolo della propria autodeterminazione. Inoltre assumere che l’intervento chirurgico sia uno step certo della transizione – e non lo è - rimarca un concetto errato della nostra cultura che definisce una donna o un uomo solo dai genitali.

L’odio

Pensare che l’odio e la discriminazione verso le persone trans* si catalizzi esclusivamente verso di loro è un errore. Sono fidanzato da quattro anni con una splendida ragazza di nome Alice, che ha vissuto con me una grandissima parte del mio percorso. Con lei ho condiviso battaglie, giudizi, discriminazioni, rabbia ed inopportune curiosità della gente. Alice si è vista mettere in discussione il proprio orientamento sessuale, ha dovuto affrontare il giudizio di persone vicine e lontane che mi giudicavano un “mostro”, ha dovuto ascoltare domande sulle pratiche sessuali per soddisfare la curiosità di chi non si capacitava di come un uomo senza il pene riuscisse ad avere un rapporto sessuale con una donna.

Come persona trans* il primo grande ostacolo che ho dovuto affrontare è stata la mancanza di informazioni. Fino ai miei 27 anni ho vissuto come donna lesbica, confondendo il mio orientamento sessuale con la mia identità di genere. L’aver capito che queste due componenti dell’identità sessuale sono indipendenti, mi ha permesso di intraprendere un percorso che mi ha portato alla realizzazione di me stesso e al mio benessere psicofisico.

Adesso serve di più

Con il Gruppo Trans Aps di cui faccio parte abbiamo dato vita a percorsi di inclusività e progettualità per migliorare la condizione delle persone trans* in ambito lavorativo, scolastico, sanitario e, non ultimo, quello sportivo. Qui soprattutto ho incontrato tante difficoltà. Un susseguirsi di abbandoni a causa di coming out forzati, dovuti a un’iscrizione con dati anagrafici che non rappresentavano la mia identità, e la suddivisione su base di genere di spogliatoi, docce e bagni. Penso all’hockey: nella mia città era presente solo la squadra maschile, e nello spogliatoio con i ragazzi non riuscivo a non provare disagio per il mio corpo. Al tempo la mia espressione di genere era maschile e quando i compagni di squadra hanno scoperto che il mio corpo era diverso dal loro, l’allenatore ha trasformato lo sgabuzzino nel mio spogliatoio personale.  O quando sono entrato nella squadra di baseball: a quattordici anni le ragazze venivano avviate al softball mentre i ragazzi continuavano a giocare a baseball.

Ho dovuto scegliere se entrare nella squadra femminile o abbandonare e ho optato per la seconda, ma in quel momento che ho capito che sarebbe stato necessario battersi per includere nella pratica sportiva le persone trans* ed evitarne l’abbandono. Il Tesseramento Alias nazionale dell’Unione Italiana Sport Per Tutti-Uisp ne è un esempio concreto.

Nato dalla spinta della comunità trans* e non binaria, si tratta di un’iniziativa nazionale presentata in occasione della quinta edizione del Festival della Partecipazione a Bologna, che permette di rendere più inclusivo l’ambiente sportivo. Il progetto prevede spogliatoi divisi per genere di elezione e garantisce uno spazio genderless insieme alla possibilità di iscrizione e competizione con il nome di elezione laddove i documenti non siano conformi alla propria identità di genere.  Le lunghe tempistiche burocratiche per l’ottenimento della rettifica dei dati anagrafici lascia le persone trans* in un limbo nel quale sono costrette a continui coming out e discriminazioni, ecco quindi che il Tesseramento Alias è una soluzione fondamentale per evitare l’abbandono della pratica sportiva.

Come attivista ho sempre creduto che la nostra visibilità potesse essere catalizzatore di una rivoluzione capace di riconoscerci pari opportunità e diritti ancora oggi negati. La comunità trans* è stanca di restare ai margini della società, spinta in uno spazio invisibile. Siamo libere soggettività trans* autodeterminate e ne siamo orgoglios*. Il disegno di legge Zan è un primo passo, adesso bisogna pensare a tutto il resto.

© Riproduzione riservata