Niente data del referendum, sì al decreto Armi. La prudenza di Meloni

Nel consiglio dei ministri di fine anno, Giorgia Meloni ha preferito incassare ciò che era necessario e posticipare ciò che invece è meno impellente, anche a costo di chiudere senza sorprese. Così, è arrivato il sì al tanto atteso decreto Armi all’Ucraina, che nell’ultimo mese aveva ricevuto uno stop politico da parte della Lega, e nessuna decisione invece sulla data del referendum sulla giustizia. Il testo sulle armi è infine stato approvato e ora arriverà alle camere per essere convertito in legge e il via libera è stata una vittoria della diplomazia meloniana, che ha sminato il campo dai dubbi leghisti permettendo loro quella sottolineatura sul fatto che si tratti di aiuti difensivi. «Soddisfazione perché i suggerimenti della Lega sono stati recepiti e si è data priorità agli strumenti difensivi, logistici e sanitari per aiutare la popolazione civile, piuttosto che ad altro», è quanto trapela da via Bellerio. Enfasi tutto sommato indolore per Meloni, che aveva bisogno di approvare il decreto entro fine anno e dimostrare ai colleghi stranieri che l’Italia non sostiene l’Ucraina solo a parole. Tutto e bene quel che finisce bene per il governo, dunque, che oggi chiuderà in volata anche la legge di Bilancio. Ucraina, Trump ottimista: «Grandi progressi». Resta il nodo Donbass La data incerta Sarà anche un modo per iniziare il 2026 con l’unità della coalizione da rivendicare ma con un nodo ancora aperto e potenzialmente esplosivo come la data del referendum. «Ne riparleremo a gennaio», è stata la sintesi del vicepremier Antonio Tajani dopo il cdm. La prudente frenata è arrivata dopo che si erano colte volontà di accelerazione nei giorni scorsi e a suggerirla sarebbe stata anche la moral suasion del Quirinale che vigila sul corretto svolgimento del percorso referendario. La questione è a metà tra la disputa tra costituzionalisti e l’opportunità politica che il governo vorrebbe privilegiare. Il centrodestra, infatti, punterebbe a indire la chiamata alle urne per il 1 e 2 marzo, facendo partire la conta dei 50 giorni dal momento in cui la Corte di cassazione ha approvato il quesito referendario presentato dai parlamentari. Questo, perché ad oggi il Sì ha una decina di punti di vantaggio sul No secondo i sondaggi, ma niente è incerto come l’esito di un referendum e la forbice si starebbe assottigliando, quindi meglio votare presto. L’interpretazione su quando partire a contare i giorni è costituzionalmente legittima, ma non è l’unica e anzi per prassi si è sempre contato facendo passare tre mesi dal sì definitivo alla legge costituzionale, così da permettere eventuali raccolte firme per presentare anche la richiesta popolare di referendum. Proprio questa è l’interpretazione che preferiscono i comitati per il No e anche i partiti di opposizione e proprio in questo pertugio si sono infilati 15 cittadini, tutti giuristi, i quali hanno aperto una sottoscrizione (che ha superato le 70 mila adesioni grazie alla firma elettronica) e hanno depositato l’avviso in Cassazione. Questo – pur se non lo impone formalmente – dovrebbe suggerire al governo la tempistica “allungata” di convocazione, fissando la data al più presto al 22 e 23 marzo. Altrimenti, viene spiegato dal comitato per il No, ci saranno ricorsi al Tar o alla Corte costituzionale che rischiano di rendere il referendum una via crucis. La strategia del No: al via la raccolta firme. È duello sulla data La moral suasion Dal Colle, del resto, sarebbe arrivato un invito a riflettere proprio su questi rischi di forzatura sulla data del referendum: non certo per ragioni di costituzionalità (entrambe le interpretazioni sul conteggio dei giorni sono lecite) quanto di ulteriori lungaggini giudiziarie. «Dopo le feste ci sarà un altro Consiglio dei ministri. Una settimana prima, una settimana dopo, non è che la gente cambia idea», è stata la conclusione di Tajani, sempre abile a spegnere incendi. Intanto e dopo qualche tentennamento iniziale, anche le opposizioni stanno iniziando a fare gruppo intorno al No. Alla Camera si sono riuniti la segretaria del Pd, Elly Schlein, il presidente M5s, Giuseppe Conte, e i leader di Avs Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli. Insieme a loro, anche il presidente del comitato referendario che riunisce giuristi, giudici, avvocati e membri della società civile, Giovanni Bachelet e la responsabile giustizia del Pd e avvocata, Debora Serracchiani. La riunione ha avuto come obiettivo quello di fare il punto sulla campagna per il No al referendum sulla separazione delle carriere, con la consapevolezza che la strada sia in salita e che manca anche un pezzo delle opposizioni, visto che Italia Viva e Azione si sono schierate diversamente. La corsa non sarà semplice, ma un pizzico di fiducia in più sta emergendo sul fatto che la sfida sia ancora aperta, a maggior ragione visto che si tratta di un referendum senza quorum, dunque vincerà chi saprà mobilitare di più il suo elettorato. Il centrodestra, invece, sul fronte organizzativo si è già portato avanti: pur non costituendo un comitato in senso proprio si è mobilitato da settimane per darsi una organizzazione di massima per portare avanti la linea del Sì e promuovere eventi, oltre che prese di posizione politiche e mediatiche. La certezza di entrambi è che i mesi cruciali saranno quelli a ridosso del voto, dove la fetta di indecisi deciderà innanzitutto se andare a votare e poi dove collocarsi. Anche per pianificare la campagna la data del referendum è necessaria, ma il governo si prenderà ancora qualche settimana.