Il momento in cui scriviamo è particolarmente delicato. Essendo ancora molto lontani dall’immunità di comunità (“di gregge”), si rendono necessarie nuove chiusure per fare fronte a una “terza ondata”, sostenuta dalla variante B117. La diffusione esponenziale della variante inglese era prevedibile già a gennaio: non aver tenuto conto delle previsioni epidemiologiche ci costringe ad agire nuovamente nell’emergenza. Nonostante la vaccinazione, la fine della pandemia è molto lontana e la politica è chiamata pertanto a impostare le decisioni sul periodo medio-lungo. La decisione di chiudere le scuole – come altre decisioni – è un provvedimento che non può essere delegato ai tecnici, ma che richiede un contratto sociale, anche intergenerazionale. Simili provvedimenti dovrebbero essere preparati da una discussione aperta su quali sono i settori della società cui attribuiamo maggior valore, e non demandati al parere degli esperti o, peggio ancora, a una convulsa consultazione tra le corporazioni.

Agire nell’emergenza conduce inevitabilmente a compiere scelte che non coniugano in un modo apparentemente motivato e condiviso i diversi elementi in gioco: quello sanitario (soprattutto l’impatto sulle ospedalizzazioni e sulle morti), quello economico e quello valoriale. Le chiusure sono per aree (anche a livello comunale) e per settori (la scuola) ma non vi sono dati chiari ed esaustivi sul ruolo di ogni settore della società nel contribuire alla trasmissione. Anche su un tema delicato come i passaporti vaccinali sembra che non esistano sedi per una discussione pubblica approfondita. Si pronuncia invece il Garante per l’informazione, come se ancora una volta il tema etico per gli organi dello stato fosse solo la riservatezza delle informazioni.

Coinvolgere da subito

Sembra ormai chiaro come l’importanza dei temi sollevati da Covid-19 e dalla sua gestione richieda la capacità di avviare una discussione pubblica che vada oltre il ricorso esclusivo agli strumenti della democrazia rappresentativa (le elezioni) o dell’appello a regolamenti e normative. Da anni si discute di democrazia deliberativa: questa consiste prima di tutto nel dare valore al processo di formazione delle decisioni, piuttosto che alla composizione a posteriori di decisioni già formatesi. In opposizione a quella che appare la pratica oggi dominante, cioè raccogliere a posteriori le opinioni e le volontà dei cittadini tramite sondaggi ed elezioni (inclusi i referendum), la democrazia deliberativa li coinvolge fin dall’inizio nel processo decisionale. Questa mossa implica anche la constatazione che le opinioni e le volontà dei cittadini non si formano “spontaneamente”, ma attraverso condizionamenti di ogni genere, molti dei quali occulti, che i cittadini subiscono; le opinioni sono, in quanto tali, manipolabili.

In molti paesi europei, per esempio l’Inghilterra o la Francia, esempi di democrazia deliberativa sono frequenti. Un esempio molto recente è la giuria di 150 cittadini istituita dal primo ministro francese Philippe per suggerire al governo le misure prioritarie per combattere il cambiamento climatico. I 150 sono stati estratti a sorte e il loro compito era «definire le misure strutturali necessarie a giungere, in uno spirito di giustizia sociale, a ridurre le emissioni di gas serra almeno del 40 per cento entro il 2030 in rapporto al 1990». Non si è trattato di un sondaggio d’opinione, come spesso avviene (o, peggio ancora, un referendum su questioni terribilmente complesse), ma dell’istituzione di un vero e proprio gruppo di lavoro fondato su cicli di consultazioni (metodologia “Delphi”), consistenti in un esame dei motivi di discordanza e nella valutazione di dati empirici, fino possibilmente al raggiungimento di una unanimità. L’aspetto più importante di questa metodologia è che è ciclica, mira cioè a esplicitare il dissenso e ad affrontarlo, chiarendo se quest’ultimo riguardi i valori, un diverso peso assegnato ai valori stessi, oppure se riguardi i fatti, o una diversa interpretazione dei fatti (naturalmente nessun metodo è perfetto, per esempio il Delphi tende a eliminare le posizioni minoritarie e minoritario a volte coincide con il rappresentare una minoranza).

Decisioni rapide

Questo metodo può andar bene per il cambiamento climatico ma non è applicabile al Covid, che richiede decisioni molto più rapide, e che non è attivabile dall’oggi al domani ma si accompagna a un cambiamento culturale. Quello che chiediamo alla politica, e che qui proponiamo, è di smettere di ragionare solo sui tempi ristretti dell’emergenza in atto. La gravità della crisi offre l’opportunità di un cambiamento radicale: iniziare a ragionare e decidere su tempi più lunghi, creando un sistema che permetta di coinvolgere la popolazione nell’esame di diversi possibili scenari.

Le decisioni verticistiche e non condivise creano necessariamente posizioni che portano a mettere in primo piano in modo antitetico i diritti degli uni rispetto a quelli di altri. Quello che suggeriamo è di iniziare a pensare a luoghi in cui diventi possibile condividere le decisioni senza imporle come una “necessità tecnica” (e senza affidare la formazione delle opinioni ai social media e ai talk show); di fornire informazioni attendibili su come si muove l’epidemia e su quali settori contribuiscono maggiormente alla diffusione del contagio; di chiedere ai cittadini quale peso si voglia destinare alla scuola, al mondo della produzione e alle articolazioni della cultura (cinema, teatri) e dello sport. Certamente non è semplice. Le informazioni dovrebbero essere fornite da fonti ufficiali, e non dai media o dai talk show, e spiegate a una popolazione che non ha per tradizione la cultura dell’interpretazione dei dati. Ma si tratta di un mutamento culturale che può cominciare sin da ora.

In questi mesi si è molto parlato di “preparazione” (preparedness), di come evitare di farci trovare impreparati nella gestione futura di eventi drammatici come la pandemia. L’istituzione di meccanismi duraturi di democrazia deliberativa sarebbe la dimostrazione che la preparazione non è solo un fenomeno organizzativo e gestionale, ma ha una dimensione politica e democratica.

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