Da qualche giorno non c’è analista politico che non sogni di poter fare con Matteo Renzi quello che a Craig Schwartz, il protagonista del film “Essere John Malkovich”, riusciva con la star americana: entrare per 15 minuti nella sua mente.

Provare a decifrare le scelte politiche del senatore di Rignano è, fin dai tempi della sconfitta al referendum del 2016, impresa ardua per chiunque. Ma l’ultima sua mossa, che ha precipitato il paese in una crisi di governo nel mezzo di una pandemia e di una drammatica recessione economica, ha un sovrappiù di illogico che ha sgomentato tutti. Persino i cultori – sempre meno - delle tattiche pokeristiche del toscano.

Le motivazioni circolate finora, infatti, non soddisfano appieno. Non sciolgono l’arcano. Epperò, interrogando chi lo segue come un’ombra dai tempi della provincia di Firenze e analizzando con attenzione il cupio dissolvi verso cui tende da anni la parabola del leader, è possibile provare a dare qualche risposta ad azioni (apparentemente) inspiegabili.

Le esegesi secondo cui motivazioni politiche e strategiche hanno parte decisiva sono sempre da tenere in conto. Ma quelle che esplorano anche gli aspetti caratteriali e, soprattutto, i convincimenti personali diventano in questo caso fondamentali. Perché, assai più della tattica, sono da tempo il motore principale delle scelte del capo di Italia viva.

Come Sansone

Come ha scritto più di un columnist, l'apertura di una crisi senza reti di sicurezza è certamente frutto di azzardo e calcolo, e di un mix che comprende ambizione, vanità e narcisismo. Nasce anche per discutibili interessi personali (in primis quello di essere di nuovo kingmaker di un altro esecutivo) e per la disistima, profonda, provata nei confronti di Giuseppe Conte.

Ma l’all-in di mercoledì sera è dovuto anche a una furia antisistema che Renzi cova da un lustro. Convinto com’è che la sua traiettoria discendente e le percentuali miserevoli a cui il suo partito è inchiodato nei sondaggi siano dovuti non tanto a errori personali, ma alle conseguenze inique di una guerra asimmetrica. Che poteri a lui avversi gli avrebbero mosso fin da quando divenne premier.

Lobby e gruppi influenti che hanno tentato – ripete Renzi da anni - «a farmi fuori dalla scena politica in ogni modo, anche illegittimo». Come nello scandalo Consip, che ha coinvolto il padre Tiziano e un ex fedelissimo come Luca Lotti. «Il problema in questa vicenda non è né il Capitano Ultimo, né il pm Woodcock, né Luigi Marroni, l’ad di Consip.

È molto più alto il livello dei mandanti, da cui parte tutto. Se tu avessi prove su questa roba faresti bene a metterle in un posto sicuro e dire che non ce le hai, per cui se domani ti fanno qualcosa chi deve sapere sa dove andare a prenderle», lo sfogo informale che ripeteva allora ai giornalisti.

Dalle prime intercettazioni contro Enrico Letta pubblicate sui giornali alle inchieste sulla fondazione Open, il rottamatore ha cominciato a battagliare presto contro nemici reali e fantasmi inafferabili. Insieme alle sconfitte elettorali, sulla lavagna di Renzi anche l’elenco dei cattivi si è via via allungato, fino a comprendere magistrati e giornalisti, ex compagni di partito e grand commis delle istituzioni.

«Lui crede che siano tutti contro di lui. Una convinzione che s’è trasformata in voglia di rivalsa. Anche a costo di sembrare Sansone, che muore portandosi dietro i filistei», dice un ministro del Pd.

Ossessioni e trame

Ora l’ossessione sull’operatività dei nostri 007 e gli attacchi reiterati a Conte per essersi tenuto stretto la delega sui servizi segreti è traslato perfetto della diffidenza per i palazzi di cui si nutre il rignanese.

L’avvocato del popolo e il suo fedelissimo Gennaro Vecchione, direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), avrebbero infatti manovrato – involontariamente o no è per lui secondario – a suo danno, accettando di interloquire in gran segreto con l’ex ministro della Giustizia Usa che cercava in Italia informazioni utili a rovesciare il Russiagate. Secondo William Barr il presidente uscente Donald Trump, lungi dall’essersi fatto aiutare dai russi durante la campagna presidenziale del 2016, sarebbe all'opposto vittima di una cospirazione organizzata da squadre della Cia e dell’Fbi vicini all’amministrazione Obama.

Una teoria senza ancora alcuna evidenza basata soprattutto sulle dichiarazioni di un ex membro del comitato elettorale di Trump, George Papadopoulos, che a fine 2019 disse che Renzi era «stato usato da Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump. A causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta».

Un'enormità che l'ex democrat ha smentito con forza. Ma il modo con cui Conte ha gestito la faccenda ancora lo turba. «L’ennesimo attacco coordinato contro di me», spiegò a un colonnello del partito. Che dice a Domani che per Renzi il primo intrigo evidente «fu la pubblicazione sul Fatto dell’intercettazione con il generale della Finanza Michele Adinolfi».

La vicenda è nota: nel 2014 parlando al telefono con l'amico generale, Renzi (ancora sindaco di Firenze), usò parole durissime contro Letta, allora premier. Frasi che finirono senza omissis sui giornali quando Renzi aveva ormai scalzato il collega di partito.

La telefonata con Adinolfi, scriverà l’ex premier in un libro di memorie, sarebbe solo antipasto del caso Consip. Ancora oggi il padre Tiziano e l’allora renzianissimo Luca Lotti sono imputati per traffico di influenze e favoreggiamento, ma per il capo di Italia viva l'obiettivo sarebbe stata la sua leadership ingombrante.

«Con Berlusconi hanno preso un fatto, le cene con le ragazze, e gli hanno dato una configurazione giuridica. Ma almeno il fatto c’era! Con me hanno inventato il fatto. Ho anche le prove, ma io sono serio, sono un uomo delle istituzioni», si sfogò in quei mesi.

“Essere Renzi” è certo complicato. Circospetto per natura, oggi teme che aver nominato da presidente del Consiglio – senza fare mediazioni con altre parti in causa – i vertici dei carabinieri (l’ex comandante Tullio Del Sette, finito anche lui nel processo Consip) e della Guardia di finanza (l’ex numero uno Giorgio Toschi) gli abbia inimicato sine die i gangli cruciali delle forze dell’ordine.

Nemici invisibili

La magistratura, gli sarebbe diventata arcinemica in seguito alle polemiche sulle ferie («ne hanno troppe», disse), alla legge sulla responsabilità civile delle toghe, alla riforma dell’età pensionabile. Ma per i renziani doc persino l'inchiesta sul pm Luca Palamara (con le clamorose intercettazioni del giudice con Lotti e Cosimo Ferri, big di Italia viva) sarebbero nate dalla volontà, da parte di alcuni blocchi di potere, di fare a pezzi Magistratura indipendente, la corrente più vicina al senatore di Rignano.

Un convincimento, quello dell’aggressione ingiustificata di alcuni inquirenti, che s’è definitivamente incistato nella testa di Renzi dopo l’arresto dei genitori per false fatturazioni e bancarotta fraudolenta, e per il carico politico prodotto dall’inchiesta sulla Fondazione Open. In cui sono stati, indirettamente, fatti fuggire scientemente sponsor per uccidere il partito ancora in fasce.

«A me non mi troverete mai con un centesimo attaccato, né una telefonata fuori posto» diceva dopo ogni indagine sui suoi fedelissimi o i suoi familiari «Anche il mutuo di casa mia è regolare». Per Matteo anche la pubblicazione delle carte dell'antiriciclaggio che ricostruiscono il prestito da 700mila euro con cui la famiglia Maestrelli aiutò l’ex premier a comprarsi la casa sarebbe originata da chi vuole distruggerlo politicamente.

«Le segnalazioni dell’Uif, l’ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia, partono dagli istituti sul territorio. Il mondo bancario odia Renzi da quando ha tassato le fondazioni che lo controllano», spiega un deputato del Giglio magico ricordando la legge con cui l’ex premier, a inizio del suo mandato, quadruplicò l’imposta versata dgli enti. Una disposizione che fece infuriare non solo il gran patron dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, ma molti enti locali che usano quei soldi per il no-profit. «Quando hanno potuto si sono vendicati» sospettano ora da Iv.

Nessun mea culpa sull'inopportunità di un prestito chiesto a un amico precedentemente piazzato in Cassa depositi e prestiti, dunque. Né su alcuno degli sbagli commessi, spesso dettati da iubris e dai troppi yes man di cui si è circondato. «Si percepisce assediato, crede che la fine della sua popolarità tra gli italiani sia un'ingiustizia: la frustrazione induce a decisioni scriteriate», ripetono nell’entourage di Nicola Zingaretti, dove solo oggi ammettono di aver sottovalutato il lato oscuro del senatore. Ma promettendo a se stessi di lasciarlo solo, con i suoi demoni.

 

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