L’attacco terroristico a Israele ha fatto trovare compatto il governo Meloni: sono arrivate la condanna per la violenza di Hamas e la solidarietà a Gerusalemme.

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni ha scelto la via più istituzionale di comunicare solo attraverso note ufficiali di palazzo Chigi, a poche ore dall’inizio dell’attacco e poi con altre comunicazioni di interlocuzioni con il primo ministro Benjamin Netanyahu e di riunioni con l’intelligence. Infine, a quarantotto ore dallo scoppio del conflitto e a riprova del fatto che la linea italiana a sostegno di Israele sia considerata solida, Meloni prenderà parte al vertice a cinque con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro britannico Rishi Sunak. Un invito al tavolo dei grandi, che rende più solida la posizione internazionale di Meloni in un momento di crisi del bacino mediterraneo in cui l’Italia gioca un ruolo strategico.

Del resto la linea è stata granitica - plasticamente rappresentata dalla bandiera israeliana su palazzo Chigi - e seguita da tutto il governo, a partire dal solerte ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, pronto a mandare ispettori nella scuola di Milano, «se è vero che due collettivi hanno inneggiato ad Hamas».

La destra

Eppure, la storia della destra non è monolitica e anche le parole nella nota di palazzo Chigi sono state scelte con cura: si parla di «brutale attacco» e di condanna del «terrore e la violenza contro civili innocenti». Non viene però citata Hamas, che da subito ha rivendicato l’attacco. Sulla stessa linea si sono collocati inizialmente anche tutti gli esponenti di spicco di Fratelli d’Italia - rigidi nella condanna ma senza citare Hamas – e solo negli interventi della tarda mattinata, con il capogruppo alla Camera Tommaso Foti, si è parlato di «aggressione a Israele subita questa mattina da Hamas».

È un segnale, seppur marginale, di come il conflitto israelo-palestinese sia una questione aperta nel dibattito interno di Fratelli d’Italia.

Per una parte della dirigenza di partito, in particolare quella più istituzionale che è entrata nel governo anche negli anni degli esecutivi di Silvio Berlusconi, il radicamento su posizioni filo-israeliane è ormai digerito. Anzi, è diventato uno dei punti fissi del progetto della nuova destra di Giorgia Meloni, che da premier si è spesa da subito per orientare l’operato del suo governo, esprimendo vicinanza alla Comunità ebraica e allo stato di Israele.

Esiste però uno zoccolo duro, che fa riferimento in particolare all’elettorato storico di FdI direttamente discendente da quello del Movimento sociale, che ha nelle proprie radici culturali e di militanza la condivisione della causa palestinese. Non a caso nel 2003, quando l’allora leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini andò in una storica visita a Gerusalemme e prese le distanze dalle leggi razziali e dalla repubblica di Salò, nel mondo della destra scoppiò un terremoto, con addii polemici come quello di Alessandra Mussolini e la richiesta dell’allora ministro per gli Italiani all’estero di An, Mirko Tremaglia (uno degli ultimi ragazzi di Salò) di convocare l’assemblea nazionale del partito.

Due popoli, due stati

Tracce, seppur velate, di questa tensione mai risolta si ritrovano in una mozione del 2015, all’epoca firmata dai principali esponenti di Fratelli d’Italia alla Camera - tra cui l’attuale presidente Meloni - in cui si fa riferimento alla linea dei «due popoli e due Stati» per risolvere il conflitto israelo-palestinese, con il reciproco riconoscimento dello stato della Palestina e di Israele, con ripresa del negoziato per la pace. Nell’incipit della mozione, con riferimento al conflitto del luglio 2014, si fa riferimento ad Hamas come «organizzazione politica e paramilitare palestinese creata nel 1987» e solo in un passaggio successivo lo si definisce un movimento che «oggi, appare nella lista delle organizzazioni terroristiche».

Un esponente di quest’area storica di militanza a destra è Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma con An e oggi critico rispetto alle posizioni di Meloni, che non a caso è intervenuto con un post in cui ha scritto che «Il terrorismo va respinto, ma bisogna avere la forza di strappare le radici dell’odio. Riconoscendo a due popoli il diritto di avere ciascuno la propria Patria e il proprio Stato sovrano».

Traccia delle storiche posizioni dell’estrema destra in tema di conflitto in Israele si trovano oggi nella posizione esposta dal fondatore di Forza Nuova, Roberto Fiore, che su X ha scritto che «non c'è pace senza giustizia. I palestinesi cercano di liberare la loro patria e gli israeliani rispondono con più insediamenti». In un articolo su Fahrenheit 2022 ha aggiunto che «quando si parla di distruzione di Israele, anche nelle menti più radicali quali Hezbollah e Hamas, non si intende eliminare gli ebrei e gettarli a mare, ma di creare una Palestina, in cui sia consentito a tutte le razze, etnie e religioni, di autogovernarsi in una dinamica cantonale simile a quella svizzera».

Il ruolo di Tajani

Se questo si muove nell’estrema destra e dunque in uno spazio dell’elettorato storico di Fratelli d’Italia, sin dalle prime ore del conflitto è emerso invece il ruolo del ministro degli Esteri e vicepremier di Forza Italia, Antonio Tajani. Inevitabilmente, il titolare della Farnesina si è potuto muovere in modo autonomo e ha orientato il ministero italiano a guadagnare un ruolo per la possibile mediazione. Forte anche della sua storia personale e di quella del suo partito, sempre a sostegno di Israele, del suo diritto ad esistere e a difendersi dagli attacchi, ha condannato la violenza di Hamas, ma ha anche interloquito con segretario di Stato americano Antony Blinken e i colleghi di Germana, Francia, Gran Bretagna e Unione europea, annunciando di essere al lavoro per «la de-escalation del conflitto». Del resto, soprattutto negli anni della prima repubblica, l’Italia è sempre stata tra la principale forza occidentale a porsi come interlocutrice per la gestione dei conflitti regionali nel Mediterraneo. Un ruolo tanto più difficile da interpretare oggi, in cui lo scenario è già quello di guerra aperta.

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