La scissione dal Movimento 5 Stelle della componente legata al ministro del Esteri, Luigi Di Maio, aumenta l’affollamento al centro. Il gruppo si chiama “Insieme per il futuro” e il suo leader sarebbe in fitto dialogo per la costruzione di un partito centrista insieme a figure civiche come il sindaco di Milano, Beppe Sala, che però guarda al centrosinistra, e quello di Venezia, Luigi Brugnaro, che guarda a destra. In ogni caso, la proiezione che Di Maio e chi lo ha seguito sta cercando va a collocarsi in quello spazio politico di cui molti vagheggiano l’esistenza. Il progetto andrà a sommarsi a quelli già esistenti: Azione di Carlo Calenda, insieme a Più Europa, ma anche Italia Viva di Matteo Renzi , il Centro democratico di Bruno Tabacci e Italia al centro di Toti e Coraggio Italia di Brugnaro.

Nell’attuale parlamento, complici le numerose scissioni in corso di legislatura, questo centro è molto numeroso anche se poco visibile perchè tutto compreso nella maggioranza di Mario Draghi. Italia Viva, infatti, conta in tutto 44 parlamentari; Insieme per il futuro già 62, Coraggio Italia 28.

Numeri che, però, non rispecchiano gli esiti elettorali del 2018, in cui i partiti di ispirazione centrista che si sono candidati in coalizione con il centrodestra (l’Udc) e il centrosinistra (Più Europa) hanno ottenuto numeri bassi. Dunque, l’interrogativo è quanto spazio elettorale possa esserci per questi gruppi nati dentro il parlamento ma formati da parlamentari eletti in partiti connotati in modo diverso. La scelta per queste formazioni centriste sarà tra il tentare la corsa autonoma come fece Mario Monti nel 2013, oppure collegarsi agli schieramenti di centrodestra o centrosinistra come avveniva a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. 

Il passato

Non è facile capire quanto abbia pesato il centro in Italia, a partire dall’inizio della seconda repubblica e quindi dallo scioglimento della Democrazia cristiana nel 1994. Fu in quella fase, infatti, che la diaspora democristiana diede vita a una miriade di sigle e partiti di centro, che nei vent’anni successivi hanno attraversato le stagioni politiche alleandosi di volta in volta a destra o a sinistra.

Il grafico in pagina evidenzia la composizione dei seggi in parlamento tra Camera e Senato e mostra quanti parlamentari sono stati eletti con le formazioni di centro nelle elezioni politiche degli ultimi trent’anni. A influenzare gli esiti sono le diverse leggi elettorali che si sono susseguite nel tempo e che hanno modificato le strategie dei partiti, tuttavia si può analizzare l’andamento complessivo.

Quando i centristi si sono presentati con liste all’interno di coalizioni, il miglior successo è stato ottenuto con la scelta del centrosinistra: il picco è stato con la Margherita (che racchiudeva quattro liste di ispirazione democristiana: il Partito popolare, i Democratici, Rinnovamento italiano e l’Udeur), alle elezioni del 2001 nella coalizione dell’Ulivo. 

Il buon risultato del 15 per cento, però, era stato determinato anche dal fatto di essere la lista d’appoggio al candidato premier, Francesco Rutelli. Alle elezioni successive del 2006, invece, era già iniziata la transizione del partito insieme ai Ds nel Partito democratico.

Negli anni in cui un partito di centro si è presentato da solo come nel 1994 con il Patto per l’Italia di Mariotto Segni, nel 2008 con l’Udc di Pierferdinando Casini e nel 2013 con Con Monti per l’Italia di Mario Monti, la percentuale non ha mai toccato la doppia cifra.

Il successo migliore è stato quello di Monti, che però puntava sul fatto di aver appena terminato il suo mandato di premier tecnico e dunque godeva di grande popolarità personale. Guardando i flussi elettorali dei partiti centristi dal 1994 ad oggi – e con tutti i distinguo delle varie fasi politiche - spicca un dato: progressivamente lo spazio elettorale per partiti autonomi di centro, pur se collegati a coalizioni più vaste, è andato assottigliandosi ed è finito inglobato nei grandi partiti politicamente contigui, Pd e Forza Italia.

L’area Draghi

La scommessa a cui sta lavorando Di Maio è di essere interprete di un’area Draghi, come nel 2013 aveva trovato spazio un’area Monti. La variabile per capire se questo sia possibile sono le contingenze politiche con cui si arriverà alle prossime elezioni e soprattutto con quale legge elettorale. L’obiettivo del ministro, però, è di fare l’ago della bilancia di qualsiasi esecutivo uscirà dalle urne, forte anche del fatto di essere già stato protagonista di governi sia con il Pd che con la Lega.

Se coagulare forze centriste è facile in parlamento, molto più difficile è dare loro un vero spazio elettorale. L’esperimento Monti, infatti, aveva funzionato sulla scorta della leadership d’impatto di un premier uscente. Di Maio, invece, difficilmente potrebbe replicare un effetto simile, quindi la strategia migliore sarebbe cucire un’alleanza con uno dei due blocchi politici. Il voto del 2018, però, ha mostrato che entrambe le coalizioni sono state avare di voti per le piccole formazioni centriste con cui correvano. 

Tutto, però, cambierebbe se Mario Draghi decidesse di scendere davvero in politica, ma a quel punto non è certo scontato che sceglierebbe il movimento politico di Di Maio come perno. Inoltre, pur conservando Draghi un consenso personale intorno al 50 per cento, secondo l’ultimo sondaggio di Swg per la7 il 42 per cento degli italiani preferisce che il prossimo governo venga guidato dal leader politico a capo della coalizione vincente. Contemporaneamente, i partiti centristi Italia Viva e Azione/PIù Europa sono rispettivamente al 2,6 per cento e al 5,4 per cento.

Troppo poco, per pesare davvero con l’attuale legge elettorale. Non a caso sia Calenda che Emma Bonino si sono già tolti dalla lista dei partiti di “centro” e dall’ipotesi di un accorpamento di chi oggi viene così etichettato.

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