Se si cerca il programma di politica estera del Movimento 5 stelle scritto per le elezioni del 2018, su Google non si trova quasi più nulla. L’unica traccia che resta è l’esito di una votazione in cui vengono riportate le preferenze espresse dai simpatizzanti per selezionare le priorità da inserire nel testo. Se però si clicca sui singoli capitoli per approfondirli si raggiunge un “404-pagina non trovata”. «È un modo per sfuggire alle proprie responsabilità, soprattutto riguardo alle politiche nei confronti dell’Unione europea che erano le più strutturate all’interno del programma di politica estera», spiega Gianluigi Paragone, ora senatore del gruppo misto ma eletto con il Movimento. Nella lista di priorità, ancora presente sulla pagina del M5s, si legge che i temi più votati dagli iscritti sono stati il contrasto ai trattati Ttip e Ceta (14mila preferenze), l’impegno per la sovranità (10mila) e lo sforzo per un’Europa senza austerità (8mila). Scorrendo la lista, compaiono anche il ripudio della guerra, lo smantellamento della Troika, la riforma della Nato, un non ben specificato «rilancio della cooperazione» con la Russia e la risoluzione dei conflitti in medio oriente. Una serie di temi molto vari e trattati con una strategia piuttosto vaga, come confessano anche deputati del Movimento. Priorità generiche condite qua e là da qualche uscita isolata di esponenti come Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano, difensori di posizioni terzomondiste e ostili al capitalismo americano.

Restano indimenticate le dichiarazioni dei due sul Venezuela a inizio 2019, che collocavano il governo italiano fuori dal novero degli altri paesi europei, tutti schierati al fianco di Juan Guaidó. Di Stefano, oggi vice di Luigi Di Maio al ministero degli Esteri, aveva in precedenza anche visitato il Venezuela con due colleghi parlamentari, Ornella Bertorotta e Vito Petrocelli, oggi presidente della commissione Esteri del Senato. E se a un paio d’anni di distanza sopravvive, almeno in una parte dei gruppi parlamentari, l’opposizione al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), delle misure più drastiche contro l’establishment bruxellese promesse dai grillini rimane ben poco, come dimostra l’addio alle posizioni antieuro – che pure venivano illustrate con campagne sul territorio – e il voto del 2019 a favore di Ursula von der Leyen per la presidenza della Commissione europea.

Eppure, oggi, l’ex capo politico dei M5s è alla Farnesina. Dal ministero dello Sviluppo economico che guidava nel governo Conte I, Di Maio ha portato con sé le deleghe al commercio estero: ufficialmente un modo per curare in maniera più efficace il made in Italy, un tema caro anche ai Cinque stelle in commissione Esteri, ma che complica terribilmente i rapporti con i partner quando ci si siede per negoziare. Un esempio delle difficoltà che questo incrocio di competenze genera è il caso dell’Egitto: mentre Di Maio è ministro degli Esteri e quindi deve avere mezzi per imporsi sul piano diplomatico per la vicenda di Giulio Regeni, dall’altra è ingabbiato dalle incombenze legate al ruolo di “promotore” del commercio italiano. Nel caso della fornitura di armi al governo di Abdel Fattah al-Sisi, il conflitto d’interessi è chiaro: è impossibile tenere il pugno duro quando poi si ha una responsabilità nei confronti di chi si ritrova con un prodotto non venduto (che, tra l’altro, sarà acquistato da aziende concorrenti di altri paesi). La questione Egitto, tra l’altro, è tutta in mano ai Cinque stelle: le deleghe al commercio, compreso quello degli armamenti, sono infatti tra le prerogative di Di Stefano, braccio destro di Di Maio. Ironia della sorte, a chiedere chiarimenti sulla vicenda in commissione Esteri alla Camera è stata la capogruppo del Movimento, Simona Suriano.

L’apprendista

Chi lavora alla Farnesina da decenni descrive Di Maio come un ministro attento, cosciente della sua scarsa esperienza sui dossier, che ascolta e si fa guidare dalla rigida struttura del suo ministero. Un microcosmo ben collaudato e meno flessibile di altre realtà, dove l’ex capo politico ha potuto mettere mano poco o niente alla squadra e ai posti di peso. Per dire: il segretario generale, Elisabetta Belloni, è in carica dal 2016. Più volte in odore di nomine importanti, nessuno ritiene un’ipotesi plausibile il fatto che cambi lavoro a breve. Anche intervenire in maniera più incisiva sulle assegnazioni internazionali è difficile: un ambasciatore collocato in un certo paese può essere sostituito soltanto quando gli si trova una posizione alternativa. Un contesto rassicurante che pure non ha potuto impedire che l’inesperienza del ministro comportasse una perdita di credibilità per l’Italia. Come esempio viene spesso citato il memorandum of understanding con la Cina, operazione soprattutto politica e di facciata, risultato di un lungo lavoro di mediazione di Michele Geraci.

Sottosegretario al Commercio estero al ministero dello Sviluppo economico nel Conte I, vicino alla Lega e professore di Finanza in tre università cinesi, vive in Cina dal 2008. Sottoscritto nel 2019, il patto con Pechino ha creato poi imbarazzi con la comunità occidentale e gli Stati Uniti e c’è chi vede un nesso tra le ritorsioni in termini di dazi americani inflitti all’Unione europea e le aperture italiane verso oriente.

Non c’è linea

Dall’accordo con la Cina è emersa un’immagine confusa della posizione geopolitica italiana, rafforzata la scorsa primavera dall’atteggiamento defilato della Farnesina sulla nomina del nuovo capo dell’agenzia delle Nazioni unite per la proprietà intellettuale, la World Intellectual Property Organization: nella corsa tra un candidato di Singapore e uno cinese, l’Italia non ha preso ufficialmente le distanze da Pechino fino all’ultimo, quando poi ha votato per Daren Tang, il candidato singaporiano, sostenuto anche dagli Stati Uniti. Solo attraverso tante rassicurazioni l’Italia è riuscita in parte a sfuggire al suo ruolo di sorvegliato speciale nel mondo occidentale. In molti sottolineano poi come negli ultimi tempi anche Di Maio ha riconosciuto che vale la pena non alienarsi troppo le simpatie di Washington, fosse anche solo per il ruolo degli Stati Uniti nel bilancio dell’export italiano. Un pezzo alla volta, insomma, il Movimento (e il suo ex capo politico) sta ricostruendo una linea di politica estera sicuramente meno anti-establishment e più vicina alla stabilità delle alleanze tradizionali dell’Italia. A questo si affianca la ricerca di una collocazione fissa anche in Europa, il più possibile lontano dall’insignificanza di chi si ritrova senza un gruppo di appartenenza e dallo stigma di chi si avvicina a gruppi che raccolgono forze estremiste.

© Riproduzione riservata

© Riproduzione riservata