È finita un’epoca per la magistratura: con la pensione, Piercamillo Davigo non dovrà lasciare solo la toga, ma anche il suo posto al Consiglio superiore della magistratura. La decisione è stata presa dal plenum del Csm dopo una discussione durata quasi quattro ore: la questione ha riguardato il diritto di Davigo a rimanere membro del Csm anche dopo il pensionamento del 21 ottobre per limiti di età, nonostante il fatto di essere magistrato in attività sia un requisito di eleggibilità.

L’esito netto del voto è stato inatteso rispetto alle previsioni della vigilia: 13 voti in favore della decadenza; 6 contrari e 5 astenuti. Lui, Davigo, non era presente nell’aula Bachelet: per uno strano gioco del destino, era a Perugia per essere sentito come teste sul caso Palamara dal procuratore Raffaele Cantone.

Il tradimento di Di Matteo

«Non dobbiamo politicizzare la scelta o, ancora peggio, scegliere per logiche associative». Ha esordito così, il pm Antonino Di Matteo nel suo intervento al plenum. La voce affannata per la mascherina e rotta per la difficoltà a pronunciare le parole che hanno escluso il leader della sua corrente dal Csm: «La questione si risolve appellandosi ai valori costituzionali dell’autonomia e indipendenza della magistratura. La Carta prevede una rigorosa predeterminazione della componente laica e togata del Csm, non possiamo adottare opzioni interpretative che introdurrebbero, di fatto, un tertium genus di consigliere».

Dunque, «con difficoltà umana e in piena coscienza voto a favore della proposta di decadenza». La decisione di Di Matteo, parzialmente attesa ma comunque sofferta, ha fatto cambiare il tono del dibattito e spaccato la corrente di Autonomia e Indipendenza: i suoi colleghi Ilaria Pepe, Giuseppe Marra e Sebastiano Ardita hanno votato per la permanenza di Davigo, insieme al laico in quota Cinque stelle, Fulvio Gigliotti.

Un tempo vicini e considerati volti simbolo della magistratura intransigente, che tra Davigo e Di Matteo si fosse rotto qualcosa è cosa nota: i due hanno votato più volte in modo difforme al Csm e si sono posti in modo molto differente anche nell’atteggiamento da tenere rispetto alla gestione della corrente. Che, ora, si trova orfana del proprio fondatore.

Indirettamente, il caso Davigo ha spaccato anche Area: inizialmente, i 5 togati progressisti erano tutti dati come sostenitori del no alla decadenza, nonostante all’interno del gruppo ci fosse un forte orientamento opposto manifestato dalla componente di Magistratura democratica. Invece hanno votato per Davigo solo le consigliere Alessandra Dal Moro e Elisabetta Chinaglia. Il leader, Giuseppe Cascini, ha prima espresso orientamento contrario e poi ha spiazzato tutti astenendosi.

La motivazione di chi riteneva che Davigo dovesse rimanere si può semplificare in questo: non esiste una norma che stabilisca esplicitamente la decadenza da consigliere del Csm dopo il pensionamento, anzi un articolo in tal senso esisteva ma è stato abrogato nel 1990. Posto che non si può ritenere (come ha sostenuto il Consiglio di Stato) che l’essere magistrato in attività sia una condizione «scontata», nessun criterio interpretativo sistematico legittima a creare una norma che non c’è. «Non si tratta di interpretazione estensiva ma di scrittura di una norma. Ma noi siamo organo amministrativo», ha argomentato lo stesso Cascini, che ha aggiunto: «L’abrogazione espressa di una norma non ci consente di farla rivivere in via analogica».

Il comitato di presidenza

A condizionare in modo determinante l’esito del voto, tuttavia, è stata la scelta esplicita del primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio e del vicepresidente del Csm, David Ermini. Curzio, che inizialmente era considerato tra i possibili astenuti, ha fatto un intervento molto duro: «Il pensionamento fa venir meno lo status di magistrato ordinario e comporta quindi il venir meno delle funzioni giudiziarie e di componente del Csm» e ha motivato che «se per uno di loro viene meno la condizione di magistrato, viene meno anche il rapporto di proporzione tra togati e laici».

Ermini, invece, ha avuto toni più empatici, parlando di «decisione dolorosa ma necessaria: amara, ma che il rispetto della Carta e il bene dell’istituzione esige senza ripensamenti». Secondo il vicepresidente, «è la Costituzione che ci costringe a rinunciare a Davigo», ribadendo le stesse considerazioni di Curzio.

Proprio una presa di posizione così netta del comitato di presidenza ha indotto Cascini ha tramutare il suo no in astensione «per senso di responsabilità», seguito anche dagli altri due togati di Area Giovanni Zaccaro e Mario Suriano (oltre a due laici, di Cinque stelle e Lega) e ha orientato per il sì il voto del laico Filippo Donati. Favorevoli al pensionamento anche i due togati di Unicost, i tre di Magistratura indipendente, i due consiglieri laici di Forza italia e Emanuele Basile della Lega. L’esito, tuttavia, non era scontato e la relazione della commissione Titoli è stata molto criticata, anche da chi poi ha votato a favore.

Ora, per Davigo inizia un futuro incerto. Le sirene della politica non sono mai mancate all’ex pm di Mani pulite ma lui ha sempre rifiutato di farsi ammaliare, pur intervenendo spesso a gamba tesa nel dibattito pubblico. Ora, però, si apre una fase nuova: per lui come per il Csm, dove il suo posto verrà occupato dal primo dei non eletti, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano, in quota Unicost.

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