Chiudere il Pd per salvare la sinistra?

Per Mario Ricciardi, professore di filosofia e direttore della rivista il Mulino, lo scioglimento e rifondazione rimane uno scenario molto improbabile, ma alle giuste condizioni potrebbe comunque avere un senso.

Professor Ricciardi, sciogliere il Pd o continuare con l’antico contenitore?

Non ritengo molto probabile che il Pd si sciolga. Con tutti i suoi limiti, il partito rappresenta ancora un’insieme di interessi e aspettative di vario tipo e partecipa ancora, attraverso le sue diramazioni locali, al governo delle regioni e dei comuni. Uno scioglimento che non preveda una contestuale nascita di un successore è irrealistico. Potrebbe essere un’operazione sensata, ma solo ad una condizione: che si facesse un profondo esame di coscienza su cosa significhi oggi essere un partito di sinistra. Sempre che il Pd voglia esserlo, un partito di sinistra, poiché una parte dell’attuale partito guarda al centro, non gli interessa.

Cosa dovrebbe comportare questo esame di coscienza?

Certamente un rinnovamento del gruppo dirigente. L’evidenza lampante è che l’attuale gruppo non ha nessuna inclinazione a difendere una linea che porti il partito più a sinistra, quindi se si vuole recuperare consenso in quella direzione si deve per forza cambiare classe dirigente. Non possono esserci uomini o donne per tutte le stagioni, gente che è passata da Bersani a Renzi a Letta. Anche questo ha alienato parte degli elettori. Accanto a questo servirebbe un rinnovamento delle idee e delle policy. Discutere a fondo di cosa significa in concreto lavorare a una società più giusta. Ma non sono idee che vanno elaborate da zero. C’è un dibattito internazionale che è stato per lo più ignorato perché il partito aveva più interesse a raccogliere l’approvazione del mondo imprenditoriale. Ma le vicende europee, come quelle di Spagna e Portogallo dove la sinistra governa, ci mostrano che queste misure vengono discusse. Non dobbiamo inventarci nulla di nuovo. Sul welfare, sulla questione dei migranti: si trovano ovunque proposte concrete per una società più equa. Il problema è che la politica italiana sta su un piano che non interagisce con il resto del mondo.

Lo scioglimento comporta dei rischi, come ha scoperto a sue spese la Democrazia cristiana. I socialisti francesi e greci, pur spazzati via dal voto, ancora mantengono nome e simbolo. Questa strada non è troppo pericolosa per il Pd?

Sciogliere un partito con un’identità così debole non è un grande trauma. Quelli greci e francesi sono partiti con una lunga tradizione, che ne portavano e ne portano tuttora il simbolo, il socialismo, nel nome. Il Partito Democratico? Insomma, non così tanto. Come ragioni per tenere in piedi il partito vedo molto più importante quella del mantenere il potere, nel senso buono di conservare le amministrazioni locali in cui ancora governa spesso con efficacia, più che la difesa di una tradizione. Anzi, secondo me una delle ragioni più interessanti per riflettere su un processo di rinnovamento radicale, che includa anche un cambiamento nome, potrebbe essere proprio quella di ricollegare il partito ai grandi filoni delle culture politiche europee, che continuano a costituire la cornice in cui si svolgono i dibattiti nel nostro continente. Il fatto che l’Italia invece abbia scimmiottato gli Stati Uniti in maniera provinciale è una delle cause che hanno indebolito questo partito.

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