L’Italia, uno dei paesi ritardatari nel recepimento della direttiva sul diritto d’autore (direttiva Ue 2019/790), si appresta ad approvare un decreto legislativo che ha tra i suoi obiettivi quello di riequilibrare la posizione degli editori e delle piattaforme informatiche come Google e Facebook, riducendo il value gap tra i giganti di internet e coloro che creano i contenuti. Il decreto, che ha avuto una genesi opaca, con consultazioni di cui non vi è traccia sui siti dei ministeri competenti e che hanno coinvolto solo stakeholder selezionati, è stato duramente criticato dall’autorità antitrust (Agcm), che ha evidenziato profili anticoncorrenziali e ha censurato il meccanismo obbligatorio di negoziazione tra gli editori e le piattaforme.

La direttiva, infatti, ha previsto il diritto di autorizzare o meno le pubblicazioni giornalistiche online da parte dei prestatori dei servizi delle società dell'informazione, dietro il pagamento di un corrispettivo, al termine di una negoziazione tra le parti interessate; il decreto, invece, vorrebbe introdurre un vero e proprio diritto a ottenere una remunerazione, obbligando le piattaforme di internet a stipulare accordi con gli editori.

Il governo, in maniera singolare, ha ripreso questa regola da una recente legge australiana, dimenticando, evidentemente, che l’Australia, non appartenendo all’Unione europea, non è tenuta a condividere gli obiettivi della direttiva, né gli strumenti legislativi per raggiungere tali obiettivi, e che tutti gli altri stati europei, nelle proprie leggi nazionali di recepimento, hanno rispettato fedelmente il diritto delle imprese in gioco di concludere o meno gli accordi.

Il valore della remunerazione, stando al testo che circola in queste ore, potrebbe essere determinato dall’Autorità per le comunicazioni (Agcom) e sottratto al potere negoziale delle singole società editrici, in aperta violazione della libertà di impresa sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A peggiorare il quadro, la ripartizione dei proventi tra gli editori dovrebbe tener conto di parametri non indicati nella direttiva e fantasiosamente elaborati dal legislatore italiano, quali la storicità delle testate e il numero di giornalisti impiegati: una soluzione che favorirebbe i vecchi editori, penalizzando i nuovi.

Estro legislativo

Il copyright, storicamente, ha lo scopo di incentivare la creatività e di ripagare gli sforzi economici sostenuti dalle imprese del settore. Una logica disattesa dalla bozza di decreto, che introduce un meccanismo di distribuzione sganciato dalla qualità e dal valore dei contenuti utilizzati, finendo col rafforzare le posizioni di mercato esistenti.

La bozza di decreto fissa regole poche chiare e di complessa interpretazione. L’esempio forse più evidente è quello che riguarda gli “estratti brevi” ossia le porzioni di pubblicazioni giornalistiche liberamente utilizzabili dagli operatori di internet. Anziché adottare una linea di demarcazione netta, il legislatore italiano ha tradotto la nozione di “estratti brevi” con una definizione criptica, secondo cui l’obbligo di licenza non sussisterebbe nel caso in cui l’estratto ripreso “non dispensi dalla necessità di consultazione dell’articolo giornalistico nella sua integrità”. Quindi, non un parametro oggettivo, come avrebbe potuto essere un numero massimo di caratteri, ma soggettivo e vago, essenzialmente associato alle conoscenze e alle capacità del lettore. L’incertezza definitoria e l’assenza di parametri di immediata applicazione potrebbero riverberarsi negativamente sulla posizione di editori e autori e aprire il campo a possibili, se non inevitabili, contenziosi giudiziari tra gli attori in gioco.

L’estro legislativo – sganciato dai principi fissati con la legge di delegazione europea 2019-2020, cui il decreto avrebbe dovuto attenersi – rischia di procurare effetti negativi all’intero mercato. Le big tech saranno obbligate ad acquistare contenuti giornalistici, a prescindere dalla loro volontà di utilizzare questi contenuti, e dovranno rivelare i dati utili alla determinazione dell’equo compenso (altra regola tutta italiana), pena una sanzione pari all’1 per cento del loro fatturato annuo. Il settore editoriale, che pure avrebbe dovuto essere il maggior beneficiario della riforma, assisterà all’introduzione di strumenti arbitrari e slegati dalle regole del diritto d’autore, che distorceranno gli equilibri di mercato.

Rimedi, in definitiva, che potrebbero essere peggiori del male, sui quali bisognerebbe intervenire in fretta, prima che lo facciano, tra qualche tempo, le istituzioni comunitarie.

 

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