«Sei una donna, non puoi stare seduta qui, queste sono le nostre regole». «Da quando in qua le donne giocano». Questo, come raccontato dalla diretta interessata su Instagram, è quello che l’attrice del gruppo The Jackal Aurora Leone, a Torino insieme al collega Ciro Priello per partecipare alla Partita del cuore tra Nazionale cantanti e Campioni per la Ricerca, si è sentita dire da due persone dello staff della Nazionale cantanti tra cui il direttore generale Gianluca Pecchini (che si è poi dimesso). E poco importa che l’attrice fosse stata ufficialmente convocata per giocare insieme ai Campioni per la Ricerca, poco importa che si tratti di un evento di beneficenza, Aurora e Ciro hanno lasciato il ritiro. Così, tra l’imbarazzo generale, le dichiarazioni di solidarietà e le scuse di rito, la vicenda mostra meglio di qualsiasi analisi sociale quanto certe forme di discriminazione siano ancora ben radicate nel mondo dello sport.

E non bastano, per superarle, la vittoria della Cev Champions League di Paola Egonu e della sua Imoco Volley di quest’anno, o le tante medaglie conquistate da Federica Pellegrini. Anche perché la loro “diversità” è stabilita per legge: secondo la legge sul professionismo sportivo le donne non sono professioniste ma dilettanti.

Pochi eletti

A oggi solo quattro Federazioni sportive nazionali (calcio, basket, golf e ciclismo su strada) hanno riconosciuto al proprio interno il professionismo ma solo per alcuni: nella Figc chi è tesserato per le leghe di A, B e Lega Pro mentre nel basket l’A1, e solo per gli uomini. Tutte le atlete e gli atleti tesserati nelle altre federazioni sono inquadrati giuridicamente come dilettanti. «È una legge che va assolutamente riformata – spiega Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, Associazione nazionale atlete –. È nata per il calcio e per governare quello che si era sviluppato attorno a questo sport. Il legislatore ovviamente non aveva intenzione di discriminare, la legge non dice che non possono accedervi le donne ma ha contato sul fatto che Coni e federazioni emanassero delle circolari attraverso cui si potessero chiarire le condizioni di utilizzo di accesso alla legge». Le circolari non sono mai state emesse e così spetta a Coni e federazioni decidere chi è un professionista. Un parola che significa anzitutto il riconoscimento di diritti e tutele da parte dello stato. «Lo sport è una terribile zona franca – continua Rizzitelli –. Più di due settimane fa c’è stata la proroga alla riforma dello sport sulle parti che riguardano il lavoro sportivo, puntando sul fatto che le associazioni sportive non possono sostenere il costo del lavoro. Ma a questo servono i fondi per iniziare il passaggio al professionismo, anche graduale, come in qualsiasi ambito».

La riforma di Spadafora

A novembre 2020 il Consiglio dei ministri aveva approvato cinque decreti legislativi per l’attuazione della riforma dello sport presentata dall’allora ministro Vincenzo Spadafora, in carica durante il secondo governo Conte. Questi decreti contenevano punti importanti come l’ingresso dei paralimpici nei gruppi sportivi militari, l’abolizione del vincolo sportivo anche nei dilettanti, ma soprattutto la creazione di un contratto per i lavoratori dello sport e il passaggio al professionismo femminile. A inizio maggio, all’interno del maxiemendamento del decreto Sostegni, il governo Draghi, su pressioni del Coni e delle federazioni, ha deciso di rinviare l’entrata in vigore di una parte consistente della riforma al 31 dicembre 2023. Prima di quella data non cambierà nulla sul lavoro e il vincolo sportivo: circa 209mila lavoratrici e lavoratori dello sport, che in questi mesi stanno ricevendo i bonus per la sospensione delle attività sportive, rimarranno per due anni e mezzo senza alcuna tutela previdenziale o assicurativa. «Non ci aspettavamo che fosse rimandata perché per la prima volta si cominciava a parlare dell’obbligo di essere inquadrato come lavoratore sportivo. Il limite della riforma, oltre a non aver ascoltato le voci delle associazioni degli atleti, è il demandare il potere del riconoscimento del lavoro alle federazioni» continua Rizzitelli. Anche in questo caso, sarebbero loro a decidere chi può essere considerato lavoratore e chi no. «A questa considerazione ci è stato risposto che gli atleti erano liberi di fare una causa di lavoro. Ma significa non conoscere il mondo dello sport, un mondo piccolo in cui se un atleta si azzarda a farlo finisce di giocare e quindi lavorare». Intraprendere una causa contro una federazione non è facile «quando diventi atleta firmi, spesso inconsapevolmente, le cosiddette “clausole compromissorie” cioè l’obbligo di discutere tutte le controversie all’interno della giustizia sportiva. Per andare in un tribunale del lavoro bisogna avere l’autorizzazione della federazione e senza questa si rischia di essere deferito e squalificato».

Zero diritti

Cosa comportano il dilettantismo e la mancanza di un contratto di lavoro? Nessun contributo previdenziale, niente prestiti bancari, assicurativi, nessun piano pensionistico e, se sei donna, nessuna maternità. Parliamo di scritture private tra atleti e società che nella maggior parte dei casi vanno a vantaggio di queste ultime. Scritture private che contengono di tutto, anche la clausola anti gravidanza. Se vuole lavorare, un’atleta è costretta a mettere nero su bianco che non avrà figli. «Tutte l’hanno firmata, anche io per 15 anni. E continua a essere utilizzata» dice Rizzitelli ex giocatrice di pallavolo. Un caso che ha fatto il giro del mondo è quello dell’ex pallavolista Lara Lugli, licenziata nel marzo 2019 dal Pordenone volley, che l’ha anche citata per danni per aver richiesto il pagamento dell’ultima mensilità lavorata, perché rimasta incinta. Il 14 maggio, a quattro giorni dall’udienza in tribunale, il club ha ritirato la citazione per danni. «È stata una vittoria di tutte e tutti. Lara è stata una testimonial coraggiosa che, sulla propria pelle, ha voluto ribellarsi a una situazione che, ci tengo a ricordare, tutti conoscono. Le atlete vanno a casa quando sono incinte». La questione maternità delle atlete ha fatto sì che il ministero dello Sport creasse, a ottobre 2019, il Fondo maternità. Un fondo che permette di ricevere 1,000 euro al mese per 10 mesi alle future madri in gravidanza durante l’attività agonistica, cui hanno aderito solo 36 atlete, ma che non è la soluzione a tutti i problemi dato che le clausole negli accordi permangono e il fondo si basa sulla disponibilità delle casse statali.

Il Fondo per il professionismo

A resistere al rinvio della riforma da parte del governo Draghi è il Fondo per il professionismo negli sport femminili, creato per incentivare il professionismo, totalmente in fase embrionale e da definire. Per ora la dotazione complessiva è di 10,7 milioni (2,9 per il 2020, 3,9 per il 2021 e il 2022). Le federazioni che vogliono accedere al Fondo hanno 60 giorni di tempo, dal primo gennaio 2022, per deliberare il passaggio al professionismo sportivo entro il 31 dicembre 2022. A decidere saranno quindi, ancora una volta, le federazioni. Finora ha aderito solo il calcio. Basket, ciclismo e golf non hanno ancora mosso un dito, mentre è improbabile che altre aderiscano visto che, come ad esempio nel caso del rugby o della pallavolo, nessuno tra donne e uomini è professionista. «Questo Fondo è stato organizzato in maniera sbagliata perché ne beneficerà solo il calcio e le sue squadre più ricche. Come verrà esercitato l’obbligo? Non si sa» conclude. Il calcio, dai Mondiali 2019, è ormai considerato un mondo a parte in tema di professionismo femminile, un cambiamento di direzione dettato anche dalle nuove direttive Uefa.

Fondo e legge 91 a parte, in Italia l’unico modo per diventare professioniste è l’arruolamento nei gruppi sportivi militari e dei corpi dello stato, con un concorso pubblico apposito bandito dalle forze interessate. Solo in quel caso le tutele sono garantite, assieme a uno stipendio.

Il gender pay gap

C’è poi la questione della disparità salariale nello sport. È nota a tutti, ma pochi hanno deciso di fare qualcosa. Secondo gli ultimi dati Coni, relativi al 2017, su 4 milioni e 703mila atleti tesserati, il 28,2 per cento è donna. Il numero è probabilmente aumentato nel corso degli ultimi anni ma non di molto. La mancanza di tutele e diritti non le avvicina al mondo sportivo né le invoglia a continuare. Sono tantissime le atlete che hanno bisogno di ricorrere al famoso piano B, proseguire con gli studi o trovare un altro lavoro con cui mantenersi davvero. All’interno delle loro scritture private si possono trovare stipendi irrisori o nulli, clausole che non coprono interventi chirurgici per infortuni o cure mediche, mancanza di rimborsi benzina per le trasferte o alloggi, rischiando anche, com’è davvero successo, di dormire in macchina. Nel calcio la Figc impone alle giocatrici, con le regolamentazioni Noif, un limite di retribuzione di 30.658 euro lordi a stagione. Meno sì di più no. In serie B potrebbero ricevere un rimborso spese non superiore ai 500 euro al mese oppure gratis. «Giocatrici e giocatori di pallacanestro, considerati dilettanti, non hanno un minimo salariale e i loro compensi sono rimessi alla libera contrattazione» spiega Alessandro Marzoli, presidente Giba «insistiamo da anni sul riconoscimento del lavoro sportivo e sulla previsione di un minimo salariale concordato per chi fa dello sport un lavoro in via esclusiva o permanente». Come nel basket, anche negli altri sport ci si basa sulla libera contrattazione dove al suo interno, la differenza tra donna e uomo si sente. Nel ciclismo la Trek-Segafredo è fra i primi team internazionali ad avere equiparato gli stipendi minimi fra squadra femminile e maschile (40.045 euro). Nel tennis la Fit ha deciso, a febbraio 2021, di equiparare il massimale nei montepremi dei tornei maschili e femminili nazionali, mentre le manifestazioni internazionali come l’Open di Roma sono sotto la giurisdizione dei circuiti mondiali Atp e Wta, che presentano invece forti disparità. Alcuni sport cercano di sopperire al gap, mentre altri continuano a nascondere la mancanza dei diritti delle atlete sotto il tappeto. Fino a quando?

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