Il campo largo è tornato, potrebbe restare, per una volta ha dato prova di essere vincente – nelle elezioni comunali di Foggia – ma il successo sembra dare soddisfazione soltanto a una parte minoritaria dei partiti coinvolti.

In particolare non va giù a Giuseppe Conte. Circostanza paradossale, visto che la vittoria della candidata sindaca Maria Aida Episcopo porta la sua firma. Ma ora la buona riuscita dell’esperimento pugliese lo inchioda all’alleanza con i cugini rivali del Pd. Elly Schlein ha colto subito la palla al balzo: «È la dimostrazione che uniti si vince, l’alternativa alla destra c’è. Il Pd lavorerà ancora più convintamente in questa direzione». Conte ha però un’altra idea.

A Foggia, dov’era il padrone di casa, non poteva fare figuracce. Quindi ben vengano gli alleati, perfino quelli più duri con il M5s come Carlo Calenda e Matteo Renzi.

Verso le europee

Archiviato questo capitolo, ora il pensiero è rivolto alle europee. Lì, complice il sistema elettorale, ciascuno giocherà la propria partita. Ma l’idea di muoversi in alleanza con i dem non dispiace al gruppo parlamentare dei Cinque stelle, che si sente emarginato.

Molti deputati e senatori grillini, spiega un parlamentare, sono stanchi di vivere all’ombra di Conte e «aspettare il 27 del mese per incassare lo stipendio». Volentieri, quindi, si batterebbero insieme ai colleghi del Pd su battaglie comuni. Meno entusiasti i parlamentari dem, che al di là della convergenza sul tema del salario minimo, non hanno ancora trovato il feeling necessario per costruire un progetto comune.

Ma il primo a non essere entusiasta di possibili convergenze è proprio Conte che, dopo aver negoziato la tregua con Beppe Grillo indorata dal contratto di consulenza del fondatore con i gruppi parlamentari, e dopo l’addio dei dimaiani, era finalmente riuscito a costruire un partito a sua immagine e somiglianza.

Non è un caso che il canale WhatsApp inaugurato settimana scorsa porti il suo nome e non faccia riferimento al Movimento. Riaprire il cantiere con il Pd, a questo punto, non è parte della sua strategia. «Anche perché significherebbe sedersi al tavolo da junior partner» dice chi lo conosce bene. «E dopo che è stato a palazzo Chigi Giuseppe non accetta di non dare le carte in una trattativa». Di qui la necessità, già nei giorni successivi alla vittoria di Foggia, di riaprire la sfida al Pd, più che il cantiere del campo largo.

Pace contro pace

L’occasione è arrivata con la piazza pacifista mobilitata dal conflitto in Medio Oriente. Il M5s e Conte hanno aderito con entusiasmo alla manifestazione del 27 ottobre, mettendo in difficoltà la leadership democratica, che non ha partecipato. La guerra rimane forse il tema su cui gli aspiranti alleati sono più distanti. Anche se sul Medio Oriente la posizione di Conte è meno netta rispetto a quella tenuta nei confronti del conflitto ucraino. Un po’ perché l’ex premier non vuole rischiare di essere accusato di antisemitismo – com’è quasi successo nei primi giorni successivi all’attacco di Hamas – un po’ perché il ruolo del vero difensore delle istanze del popolo palestinese è già interpretato da Alessandro Di Battista, l’unico che l’“avvocato del popolo” non vorrebbe mai più vedere dalle parti dei Cinque stelle.

Uniti e divisi

Insomma, come nelle coppie che stanno per separarsi, mentre uno conta le cose che uniscono, l’altro sottolinea ogni singola differenza. Così, dalle parti di Conte spiegano che su transizione ecologica («pensi all’inceneritore a Roma»), Jobs act («una parte del partito continua a difenderlo») e sanità («hanno governato troppo a lungo nelle regioni») esistono troppe differenze per costruire un’alleanza organica.

Poi, come dimostra Foggia, tutto è possibile. «È la prova di quello che diciamo da tempo – spiegano – Se ci sono temi e candidati da sostenere insieme, le trattative si possono fare». A livello nazionale, invece, non è cambiato nulla: «Non hanno mai proposto di sedersi al tavolo, ma siamo in ogni caso troppo lontani per pensare a un abbraccio sistematico». Non certo prima delle europee. La strada delle trattative, infatti, è sempre percorribile. Ma solo dopo un risultato elettorale che incoroni Conte leader del centrosinistra.

Le regioni

E quindi si torna a ragionare caso per caso, regione per regione, città per città. E per ora il presidente del M5s è in condizione di muoversi come preferisce, ottenendo quasi sempre il risultato più favorevole. Come in Sardegna.

Lì Pd e M5s hanno trovato un accordo di massima sul nome di Alessandra Todde, vicepresidente del M5s ed ex sottosegretaria allo Sviluppo economico. Il risultato delle regionali non è scontato. Soprattutto perché il presidente uscente Christian Solinas (Lega) non ha alle spalle cinque anni brillanti.

Ma c’è l’incognita Renato Soru, ex presidente dem pronto a ricandidarsi come indipendente sottraendo voti al centrosinistra. «Ci sono problemi interni loro, noi non possiamo intervenire» osservano prontamente dal M5s. Come a dire, se perdiamo la colpa non è nostra.

Stesso discorso in Abruzzo, dove il presidente uscente Marco Marsilio di FdI, sostenuto dal centrodestra, non dovrebbe aver problemi a essere riconfermato. Luciano D’Amico, il candidato unico di M5s e Pd, è un uomo vicino ai dem che in passato è stato perfino oggetto delle interrogazioni ostili dei Cinque stelle in parlamento. Anche in questo caso, il perfetto capro espiatorio a cui attribuire una sconfitta praticamente certa.

In Piemonte la situazione è ancora diversa. Lungi dall’essere vicini a un accordo, è in corso un confronto interno al M5s tra la capogruppo in consiglio regionale, Sarah Disabato, e la senatrice Susy Matrisciano. Entrambe puntano alla candidatura, mentre il Pd sta valutando il nome di Chiara Gribaudo.

Anche qui, però, l’uscente Alberto Cirio non sembra doversi preoccupare. Certo, sulla carta ci sarebbe ancora il tempo per trovare una convergenza (si dovrebbe votare a giugno, in concomitanza con le europee). Fallimentare, molto probabilmente, e quindi utile alla narrazione di Conte, diametralmente opposta a quella di Schlein: uniti si perde.

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