Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, è stato criticato, anche su questo giornale, per il suo ruolo dimesso, per non dire inesistente, nei negoziati diplomatici sulla crisi in Ucraina, cosa che non quadra con la leggendaria reputazione dell’uomo che ha salvato l’euro dicendo tre parole, un raro esemplare di statista italiano capace di far calare il silenzio quando prende la parola nei consessi internazionali.

Fare la lista dei sinceri attestati di stima rivolti a Draghi dai massimi leader politici viventi (e non) sarebbe troppo lungo. Per dare la misura dell’autorevolezza basta ricordare la composizione della delegazione degli Stati Uniti che gli ha fatto visita durante il G20 organizzato a Roma lo scorso anno.

A palazzo Chigi si sono presentati il presidente, il segretario di Stato, la segretaria del Tesoro e il consigliere per la Sicurezza nazionale. A memoria non si ricorda una tale concentrazione di autorità americane in visita al capo di un governo straniero. Poi scoppia nel mezzo del continente europeo la più grave crisi internazionale degli ultimi decenni e Draghi s’inabissa, dirottando buona parte dei suoi superpoteri sulle consultazioni con i partiti di maggioranza sul catasto.

Emmanuel Macron e Olaf Scholz trattano con Vladimir Putin, tentano di mediare attraverso Xi Jinping, tengono le relazioni con la Casa Bianca e triangolano con tutti gli attori coinvolti, mentre Boris Johnson parla tutti i giorni al telefono con Volodymyr Zelensky, il presidente di un paese invaso che nei primi giorni della crisi ha anche sferzato via Twitter Draghi per aver riferito in parlamento di un appuntamento telefonico fissato e poi saltato, causa bombardamenti.

Per il resto il premier si limita alle interlocuzioni protocollari, senza protagonismi o rivendicazioni di centralità nel dibattito europeo. Non sgomita per avere un posto accanto a Scholz e Macron. Un po’ poco, ragiona qualcuno, per il leader incoronato anzitempo come erede di Angela Merkel alla guida dell’Europa.

Potere e interesse

C’è però un’altra spiegazione per quella che qualcuno vede come una colpevole remissività del premier: Draghi è un realista. La voce della Internet Encyclopedia of Philosophy sulla dottrina realista dice che uno degli assunti di fondo è che il «mondo è caratterizzato dalla competizione fra diverse basi del potere» e che gli interessi di ogni attore, innanzitutto gli stati, «devono essere difesi attraverso l’esercizio del potere».

Questa visione degli affari umani e dei rapporti internazionali, che solitamente si fa risalire a Tucidide, mette in primo piano il bilanciamento dei poteri e i calcoli sulla difesa degli interessi particolari, criteri che nell’analisi dei fenomeni prevalgono sull’enunciazione di principi ideali e valori universali.

I realisti non rifiutano principi, valori, aspirazioni e ideali: semplicemente pensano che il modo in cui va il mondo sia dettato essenzialmente dal potere, cioè letteralmente da “ciò che si può”.

Una visione realista sulle posizioni diplomatiche nella mediazione sulla crisi ucraina tende a notare, ad esempio, che la Francia è una potenza nucleare, membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu ed erede di una tradizione imperiale che spende 40 miliardi di euro all’anno per la difesa, contro i 25 dell’Italia.

Oppure che la Germania ha un Pil doppio rispetto a quello dell’Italia, e Scholz negozia con Putin dopo avere messo sul tavolo un mostruoso investimento da 100 miliardi sulla difesa e la promessa di raggiungere in due anni la soglia del 2 per cento del Pil sugli armamenti richiesta dalla Nato.

Nelle retrovie

Un realista sa che di fronte a questi argomenti non ci sono abilità personali o capitali reputazionali che possano competere. E infatti quando hanno proposto a Draghi la storia che era l’erede naturale di Merkel, lui ha garbatamente rifiutato, facendo notare che sono ben altri i fattori che determinano chi guida l’Unione. Un realista sa anche che la spalla che si agita per stare sotto lo stesso riflettore che illumina il protagonista di solito non solo non riesce a rubargli la scena, ma rischia di produrre effetti ridicoli o grotteschi.

Un realista, infine, sa che anche i fattori contingenti contano nel determinare chi ha le leve vantaggiose per agire e chi invece è opportuno che rimanga nelle retrovie. Macron è in campagna elettorale e il suo iperattivismo diplomatico sta producendo buoni effetti sui sondaggi. Scholz è alla testa di una coalizione nata fra molte complicazioni ma che si sta rapidamente consolidando dietro di lui. Draghi fatica a contenere la litigiosità di partiti deboli e sfilacciati e non ha nemmeno la forza per arginare le disavventure polacche di un Salvini.

Forse il ruolo di secondo piano di Draghi in questa crisi non è dettato da un difetto di leadership, ma dalla lucida coscienza che la bilancia del potere pende altrove, cosa che potrebbe far rileggere le sue mosse felpate sotto la luce della saggezza realista.

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