A seguire il ragionamento di Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna, fra i presidenti delle regioni non tira aria di appelli al capo dello Stato o al presidente del Consiglio.

Né al primo perché resti al suo posto, come accettò di fare Giorgio Napolitano nell’aprile 2013, né del secondo perché resti al suo. «No assolutamente no, non è questo il nostro ruolo e sarebbe sbagliato fare richieste di questo genere», spiega il presidente dell’Emilia Romagna.

«Siamo amministratori locali, diamo una mano, come classi dirigenti saremo giudicati se saremo stati capaci di spendere i soldi del Pnrr». Eppure aggiunge: «Se Draghi sarà il candidato sarà un onore poterlo votare. Tuttavia egoisticamente mi piacerebbe vederlo a palazzo Chigi fino a fine legislatura perché sta facendo un grande lavoro. Spero che non si vada a votare, so che tutti i miei colleghi auspicano la stabilità di governo fino a fine legislatura». Tutti, dice. Dunque anche i presidenti che evitano di rispondere alle domande dirette sul Colle, dal leghista friulano Massimiliano Fedriga al dem del Lazio Nicola Zingaretti fino al campano Vincenzo De Luca, passando per il pugliese Michele Emiliano. Gli ultimi due, peraltro persone in genere non taciturne.

Ma il passaggio è delicato. In queste ore le quotazioni di Draghi al Colle, sempre alte, sono insidiate dalla ripresa dell’emergenza pandemica, che potrebbe suggerire una scelta prudenziale per la stabilità in entrambi i palazzi. E l’unico precedente di “bis” al Colle riguarda da vicino proprio i "grandi elettori” delle assemblee regionali.

Per convincere Giorgio Napolitano era successo che si erano “bruciati” due prestigiosi padri della patria, Franco Marini e Romano Prodi. Il 22 aprile del 2013 il vecchio-nuovo presidente della Repubblica varca la soglia di Montecitorio e pronuncia un duro discorso per spiegare di aver accettato perché la Costituzione lascia «schiusa una finestra» al doppio mandato solo «per tempi eccezionali», quelli dell’impossibilità di mettere insieme una maggioranza e delle tormentate ore dei franchi tiratori.

La scala santa del Colle

Per implorarlo a restare, il 20 aprile mattina al Quirinale si era vista una processione dei leader politici in ginocchio, manco fosse la scala santa. Primo, il segretario dimissionario del Pd Pier Luigi Bersani, che in precedenza aveva già incaricato Enrico Letta di portare la preghiera del suo partito. Poi Silvio Berlusconi, con il portavoce Paolo Bonaiuti e Angelino Alfano. Poi Mario Monti per pregarlo «a nome di Scelta Civica e suo personale, di accettare la ricandidatura, nel superiore interesse del paese», proprio lui che da premier aveva fatto quello che il presidente gli aveva sconsigliato, cioè lanciarsi in politica.

Nel frattempo i parlamentari mitragliavano il Colle di invocazioni: anche perché Napolitano era la garanzia che la legislatura malnata sarebbe andata avanti.

Larghe intese

Infine era arrivata la delegazione dei presidenti delle regioni, guidata da Roberto Maroni che era anche il leader della Lega. È a loro che il presidente dice il primo esplicito sì. «“Sì, io accetto”, disse», ricorda Enrico Rossi, allora presidente della Toscana, «ma a una condizione: che si facciano le larghe intese e che si chiamino apertamente larghe intese”».

I presidenti erano tutti d’accordo, tranne Nichi Vendola, allora capo della Puglia e leader di Sel, ala sinistra della coalizione Italia bene comune. Vendola all’incontro fu affettuoso con l’anziano capo dello stato, come ricorda chi quel giorno era al Quirinale, «ma poi altrettanto affettuosamente in aula gli dicemmo che non lo avremmo votato. Io mi commossi», puntualizza, «quella scelta prefigurava un assetto di maggioranza che per noi era indigeribile». Le larghe intese di Enrico Letta arrivarono di lì a poco.

Dunque per il momento i grandi elettori delle regioni escludono appelli a Mattarella, o a Draghi, ma la quarta ondata pandemica e la variante Omicron potrebbero far tornare i «tempi eccezionali» che portano a scelte eccezionali. Invece la musica è molto diversa se si parla con i sindaci. Che parlano più chiaro.

Sindaci per Draghi

Per esempio Dario Nardella, sindaco di Firenze: «Ho grande stima di Draghi e diciamo che sarei più tranquillo se ce ne fosse un altro, uno al Quirinale e un altro a palazzo Chigi che garantisca la continuità nella qualità, nell’efficacia, nella competenza, nella tenuta politica-istituzionale». Nardella premette che «non vorrei che passassimo i prossimi due mesi a parere di Colle perdendo di vista il paese reale»; aggiunge che «è sbagliato fare un referendum su Draghi perché andrebbe bene ovunque». Ma il punto «è la situazione del paese. La mia preoccupazione è che, non trovando un secondo Draghi al governo, tutto quello che già oggi appare difficile diventa critico, dall’attuazione del Pnrr, alla gestione della pandemia, al governo della ripresa economica che va tenuta insieme ai problemi sociali. Perché, attenzione, da una parte c’è il Pil al 6 per cento ma dall’altra c’è la crisi nelle fabbriche, la povertà assoluta che è aumentata».

Il senso di quello che dice Nardella è condiviso se non dai 7903 colleghi sindaci d’Italia, dalla stragrande maggioranza. Da quelli di comuni piccoli e piccolissimi a quelli dei capoluoghi. Basta chiedere a Matteo Lepore, di Bologna: «La preoccupazione di molti sindaci in questo momento è che si entri in una fase di instabilità che rallenti o riporti addirittura ai blocchi di partenza il lavoro fatto sino ad oggi. Ricominciare da capo sul Pnrr sarebbe una sciagura. Sono preoccupato del salto nel buio di un eventuale nuovo governo. Non possiamo permettercelo, è una partita troppo importante per il paese e sono ancora diverse le criticità da sciogliere». O a Federico Pizzarotti, di Parma: «Draghi è un profilo di rilievo internazionale che potrebbe svolgere sia il ruolo di presidente della Repubblica che quello attuale. Sta lavorando bene per l’Italia, noi sindaci abbiamo un buon dialogo con i suoi uffici. Sarebbe opportuno che rimanesse a Chigi: la partita del Pnrr è fondamentale per l’Italia e per le città, messe drammaticamente in difficoltà da due anni di pandemia. Cambiare scenario aprirebbe a delle incognite che l’Italia ora non può permettersi: portiamo la nave in porto, chiudiamo bene la partita del Pnrr, stiamo parlando di riforme necessarie che non torneranno mai più».

Il numero degli abitanti diminuisce, anche di parecchio, ma le parole restano le stesse. Quelle di Orlando Pocci, sindaco di Velletri: «La reputazione di Draghi è una garanzia per il successo del Pnrr, meglio che resti a Palazzo Chigi». O Alessandro Cefaro, di Genazzano: «Draghi è uno dei pochi che, agendo in scienza economica e coscienza, consapevole del suo ruolo e della sua responsabilità, nel pubblico e nel privato, sa gestire il Pnrr per ripristinare uno Stato regolatore, democratico, partecipato e condiviso». Si distingue il sindaco di Cerveteri Alessio Pascucci: «Nessuna discussione sul valore di Draghi ma mi piacerebbe avere un governo che rispetti quello che i cittadini esprimono con il voto».

Quella del «Draghi meglio premier» era l’aria del resto che si respirava all’assemblea dei sindaci Pd, mercoledì scorso a Roma e ancora prima l’11 novembre a Parma, all’assemblea dell’Anci, associazione dei comuni d’Italia, che ha ovazionato il premier.

Il presidente, il sindaco di Bari Antonio Decaro, a «SuperMario» – lo ha chiamato davvero così – ha chiesto che anche i primi cittadini siano inseriti fra i “grandi elettori” del Colle. Ma soprattutto ha sottolineato che «massimo entro giugno del 2022 i ministeri titolari delle misure» del Pnrr «devono esaurire le procedure, che siano avvisi o assegnazioni dirette ai Comuni, ed entro dicembre 2023 i cantieri devono essere aperti». Un «obiettivo irrinunciabile», difficile da acciuffare – è il corollario sottinteso – con un altro premier e con un cambio di governo.

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