Caro Direttore,

Ieri dalle colonne del suo giornale è stato posto un problema che ci tira fuori dalla noia delle tre ore di conferenza stampa della presidente Meloni, che ha utilizzato la procedura delle domande e delle risposte in maniera squilibrata dal lato del peso delle risposte.

Il metodo seguito è: il giornalista domanda, il governo risponde se, come e quanto vuole, senza una successiva conoscenza della valutazione dell’interrogante sul tasso di congruità della risposta. Si può subito porre riparo, facilmente, accogliendo la vostra proposta di adottare le norme procedurali del question time alle camere. L’interrogante dispone la questione, il governo risponde e poi l’interrogante si dice soddisfatto o meno e motiva con le sue ragioni.

Ma resta una questione più importante che viene sollevata dalle vostre esposizioni che dicono della crisi delle istituzioni democratiche del paese: capire e far capire ciò che si muove intorno al potere di una destra al governo che ormai dimostra ogni giorno di più che era fallace l’idea di chi la credeva prossima a convertirsi a una forza democratica conservatrice.

C’è un punto della conferenza stampa che non può solo essere fugacemente commentato: quando ha fatto cenno a ciò che si muove intorno a lei di oscuro e di torbido per rovesciare il suo governo. Ha detto che «in questa nazione c’è chi è abituato a dare le carte»: in una democrazia parlamentare a chi si riferisce quel «abituato a dare le carte»? Lei non ha risposto. I commentatori hanno creduto di interpretare le parole oscure con altrettanto vaghe e oscure manovre. Ma la risposta sta nelle parole del presidente del Senato La Russa quando, spiegando le ragioni della riforma dell’elezione diretta del premier, disse che serviva a limitare il potere che si era autoassegnato in eccesso il presidente della Repubblica. Il presidente della Repubblica, con suo messaggio-manifesto di fine anno ha turbato i sogni del Capodanno della presidente Meloni. E lei ha sferrato l’attacco a chi, nella sua idea, «è abituato a dare le carte».

Ma se le cose stanno così, la conferenza andava sospesa, e andavano rimesse le carte al parlamento, giudice vero e sovrano di una denuncia di un golpe strisciante.

Sarà bene che la questione si apra in parlamento. Andando oltre il question time, che va bene per questioni non coinvolgenti l’assetto democratico del paese; ma quando si arriva al midollo della vita democratica, cioè alla discussione sull’armonia dei ruoli e delle funzioni dei singoli organi, va aperto un dibattito.

Un dibattito che in questo momento ha un solo presidio di garanzia: la stampa. C’è una parte, che per fortuna appare minoritaria, compiacente e disponibile al potere. C’è una maggioranza che sente rivivere la funzione di elemento essenziale che tiene in piedi ancora, come corpo intermedio, un collegamento fra opinione pubblica e istituzioni democratiche in difficoltà. Oggi ogni copia di giornale è un pezzo di trincea, ogni giornalista è una sentinella dell’esercito democratico in rotta. Va tutelata la compattezza della funzione di trincea, quindi anche all’interno dell’associazionismo dei giornalisti va aperta una discussione. Serve un chiarimento: perché non ci sia accettazione di situazioni di fatto, perché il potere autoritario quando è in crisi chiede ai giornalisti di essere trombettieri, e alla stampa di essere cassa di risonanza. Sarebbe la fine di una categoria, ma soprattutto la fine della democrazia.

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