Dal 1993 a oggi Torino si è concessa una divagazione con Chiara Appendino, Roma con Gianni Alemanno e Virginia Raggi, Bologna con Giorgio Guazzaloca, Napoli con Luigi De Magistris. Se si eccettua Milano che, dopo una lunga tradizione socialista, ha visto alternarsi a palazzo Marino il trio Marco Formentini, Gabriele Albertini e Letizia Moratti (Silvio Berlusconi, in fondo, è stata la prosecuzione del socialismo craxiano con altri mezzi), le principali città che andranno al voto domenica 3 e lunedì 4 ottobre, sono state guidate per la maggior parte degli ultimi 28 anni da sindaci vicini al centrosinistra.

Ogni eccezione ha ovviamente le sue regole. Formentini era la risposta popolare, o populista, alla stagione delle manette. Gli altri il tentativo di rompere sistemi di potere così stabili da aver incrostato gli ingranaggi della macchina amministrativa. Fatto sta che il centrodestra così come lo conosciamo da quando Forza Italia è nata, ha registrato in queste città più sconfitte che successi. E probabilmente così sarà anche alle prossime elezioni. Non che si voglia qui fornire alibi a Matteo Salvini, Giorgia Meloni & co. Ma è sicuramente da anni che il Pd e, prima di lui i suoi progenitori, partono in vantaggio in questo tipo di sfide. Soprattutto se si considerano i grandi centri urbani. Detto questo le eccezioni di cui sopra hanno dimostrato, nel tempo, che non c’è nulla che non può diventare contendibile. Quindi se tra due settimane il centrodestra si ritroverà seduto più sui banchi dell’opposizione che su quelli del governo una qualche colpa ce l’hanno anche i leader di FI, Lega e FdI.

Michetti chi?

La prima responsabilità di Salvini e compagnia è sicuramente quella della scelta dei candidati. Non solo l’ectoplasmatico Enrico “chi?” Michetti. Ma anche il medico pistolero Luca Bernardo e, a seguire, tutti gli altri (con la sola eccezione di Paolo Damilano che a Torino sembra avere qualche possibilità di successo). L’incapacità manifesta degli aspiranti sindaci induce spesso a pensare che si tratti di una scelta consapevole: selezionare il peggio disponibile. Sappiamo, in realtà, che la vicenda è più complessa. Che a produrre la corsa al ribasso è stato un insieme di fattori che va dall’assenza di una classe dirigente all’altezza fino alle rinunce, numerose, di personalità più all’altezza della sfida. 

Salvini, Meloni e Berlusconi, quindi, non hanno coscientemente deciso di perdere. Ma di sicuro hanno fatto poco o niente per vincere. E non solo perché, alla fine, nulla cambierà nella mappa delle amministrazioni comunali italiane (il centrodestra continuerà a non governare nelle principali città al voto) ma anche perché la vera posta in gioco non è la poltrona di questo o quel sindaco.

Per capirlo basta dare un’occhiata ai manifesti elettorali dove spesso campeggiano le facce dei leader del centrodestra e i nomi dei sindaci vengono scritti con caratteri talmente piccoli da diventare irrilevanti. L’impressione, quindi, è di trovarsi davanti non a un’elezione amministrativa, ma a un anticipo delle politiche che verranno.

Regolare i conti

Le comunali del 3 e 4 ottobre serviranno soprattutto a regolare i conti dentro e tra i partiti della coalizione di centrodestra. Chi prenderà più voti tra Salvini e Meloni? Che peso avrà l’ala governista della Lega? Il leader leghista darà la colpa della sconfitta a Giancarlo Giorgetti e ai presidenti di regione che gli si sono opposti in queste settimane? E Fratelli d’Italia? Il partito di Meloni, che all’esterno appare compatto, è in realtà attraversato da fratture storiche (l’anima milanese vs quella romana) e vecchie ruggini (vedi, nella capitale, il rapporto non proprio idilliaco tra Fabio Rampelli e Francesco Lollobrigida). C’è poi l’incognita Forza Italia che difficilmente riuscirà a invertire la rotta di un progressivo declino.

Ultimo, ma tutt’altro che irrilevante fattore, il fatto che i neo sindaci dovranno guidare le città nei prossimi cinque anni. Il che vuol dire una sovrapposizione con le elezioni politiche del 2023 (o prima se la legislatura non arriverà alla sua naturale conclusione). Una grande città mal governata potrebbe non essere un buon biglietto da visita per chi si candida a guidare il paese.

Il centrodestra potrebbe quindi aver scelto di ritrovarsi con una onorevole ma indolore sconfitta e di utilizzarla per chiarire i rapporti di forza in vista di appuntamenti ben più importanti come, ad esempio, l’elezione del capo dello stato . 

Dopotutto ieri Salvini, che è sicuramente il leader più in difficoltà in questo momento, è andato a Milano per annunciare in pompa magna, mentre difendeva i suoi deputati assenti alle votazioni sul decreto green pass («ognuno è libero di agire secondo coscienza, siamo in democrazia e non in un regime»), l’ingresso nella Lega del presidente del Consiglio regionale della Lombardia Alessandro Fermi, del consigliere regionale Mauro Piazza e di Daniele Nava, ex presidente della provincia di Lecco e sottosegretario della giunta Maroni. Tutti ex Forza Italia. Gli ingressi, almeno a livello comunicativo, sembrano compensare le defezioni degli ultimi mesi e sono una risposta a chi parla di una Lega indebolita dall’avanzata di Fratelli d’Italia,

«Nei prossimi giorni entreranno alcuni parlamentari di diversi partiti, non solo di centrodestra – ha detto Salvini –. In questo periodo non entrano nella Lega solo due consiglieri regionali, un sottosegretario ma alcune centinaia di amministratori locali che per me valgono più di deputati, senatori e ambasciatori». I sindaci quelli no, non valgono poi così tanto, meglio farne a meno.      

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