Acque agitate nel Pd, sotto la superficie della “pax schleiniana” dovuta alla sua abilità nel mettere d’accordo il gruppo dirigente ma forse di più all’attesa delle liste delle europee: l’eventualità della corsa della segretaria agita gli aspiranti capolista, ma in primis lei, indecisa sul da farsi.

L’area riformista è irritata per le parole gelide, martedì sera su La7, sulla ventilata candidatura di Mario Draghi a presidente della Commissione europea, eventualità rimbalzata dalla Francia in un retroscena di Repubblica, con intenzioni non amichevoli nei confronti di Giorgia Meloni. Per Schlein non sarà lui lo Spitzenkandidat di S&D: «Il Pd fa parte del Partito socialista europeo, sceglieremo il candidato alla presidenza delle Commissione tutti insieme: Draghi non mi sembra appartenga alla famiglia socialista».

Draghi non è della famiglia socialista. Ma il contesto in cui arrivano queste parole ha il suo peso: poche ore prima alla Camera, la premier, «in trance agonistica contro l’opposizione» (ammissione di uno dei suoi) aveva perso le staffe e lasciato emergere il suo fastidio per l’ipotesi francese: «Per alcuni la politica estera è stata farsi foto con Francia e Germania quando non si portava a casa niente. L’Europa non è a tre ma a 27, bisogna parlare con tutti: io parlo con Germania, Francia e pure con l’Ungheria, questo è fare bene il mio mestiere».

L’allusione è alla foto dell’ex banchiere con Macron e Scholz sul treno per Kiev, nel giugno 2022. Ma Draghi è stimato nell’Europa dei fondatori, e quella di Meloni è una gaffe di livello continentale. Infatti i meloniani tentano subito di metterci una pezza spiegando che ce l’aveva con il Pd e non con l’«illustre predecessore».

Mercoledì Matteo Renzi ha sfottuto la premier: «Attacca Draghi sul tema dell’autorevolezza internazionale e della politica estera. Ci vuole una notevole faccia di bronzo». Ma da Iv non passa inosservata neanche la dichiarazione di Schlein: «La sufficienza con cui la segretaria ha giudicato il possibile ruolo di Draghi è pari alla boria della premier. Non si rendono conto che parlano di uno degli italiani più stimati al mondo».

Il fronte democratico

Dal Pd, lato “draghiani”, filtrano sbuffi di fastidio, del tipo «lasciamo perdere». Non da tutti, però. Per Alessandro Alfieri, riformista e membro della segreteria, «in questa fase è prematuro parlare di incarichi. Ma è indubbio che Draghi sia una delle figure più autorevoli sul piano internazionale. E sono certo che potrà dare ancora una mano al processo di integrazione europea, e in prospettiva al sogno degli Stati uniti d’Europa».

Più esplicita la vicepresidente dell’europarlamento Pina Picierno: «Il contributo al processo di integrazione europeo di Draghi è stato il più prezioso che possa vantare il Paese. Non è un caso che Meloni l’abbia citato con toni scomposti: lei crede che quel contributo vada interrotto, vuole un’Europa delle piccole patrie».

La conclusione va in direzione diversa da quella di Schlein: «Credo che la prossima sia proprio la legislatura del “whatever it takes”. E che una futura presenza di Draghi ai vertici delle istituzioni europee sia non solo preziosa, ma auspicabile».

Che la bocciatura da parte di Schlein sia stata politicamente poco meditata lo dimostra il ragionamento di un europarlamentare insospettabile di draghismo come Massimiliano Smeriglio, indipendente di sinistra: «Le famiglie europee avranno i loro candidati di bandiera.

Ma i giochi si faranno in parlamento, come è stato per Ursula von der Leyen, del Ppe, che infatti abbiamo sostenuto. Se la situazione sarà simile al 2019, e cioè vi sarà la ricerca di un nome super partes di tenuta democratica, Draghi, che è a tutti gli effetti una riserva eccellente delle istituzioni europee, sarebbe un bel nome italiano».

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