«Ho fatto un discorso generale. Vale per tutti. Se ci metti cinque candidature e ne scegli una vuol dire che alle altre quattro non ci vai. In alcuni casi non ci vai proprio. E questo è un vulnus per la democrazia». Romano Prodi non attenua la sua bocciatura secca delle pluricandidature alle europee.

L’aveva espressa la sera prima, quella di giovedì, a Piazzapulita, la trasmissione di Corrado Formigli su La7, da ospite in studio. Perfettamente consapevole che Elly Schlein lo stava ascoltando dietro le quinte, in attesa di entrare a sua volta in studio. Anche inquadrata, per mandare in onda la faccia che faceva. Che è stata un sorriso imperturbabile. Il solito.

Venerdì, a Roma in Campidoglio, a margine dell’evento organizzato dai Socialisti e democratici sull’eredità politica di David Sassoli, a due anni dalla morte del presidente dell’Europarlamento, Prodi batte di nuovo sul tasto.

Anche stavolta Schlein gli è vicinissima: è poche sedie più in là, anche lei in prima fila. «Io non stoppo nessuno», risponde lui ai cronisti che lo assediano, «ho parlato di candidature multiple. È un serio principio di democrazia. Se continuiamo a indebolire la democrazia in tutti i suoi aspetti, poi non ci lamentiamo se arriva la dittatura. Perché se risolve più problemi la dittatura della democrazia, poi vince la dittatura». Quasi una sentenza, certo un’opinione pesante. E il riferimento non può non essere alla corsa per le europee che sta meditando la segretaria Pd, da capolista in tutte le cinque circoscrizioni.

Il dissenso non impedisce ai due di salutarsi con affetto, alla fine del convegno. Prodi è il padre nobile di Schlein, il politico grazie al quale ha iniziato il suo impegno ai tempi dei 101 (voti mancanti dal Pd) che gli fecero saltare l’elezione al Colle. Lui resta paterno: «Sei stata bravissima».

Un Pd in nome di Sassoli

Poco prima la segretaria aveva disegnato i punti del programma delle europee ispirandosi proprio alle battaglie di Sassoli. Battaglie a cui lei è vicina, e più dei precedenti segretari, al di là delle dichiarazioni postume. «David ha sempre avuto il coraggio di unire senza perdere i propri valori, di discutere senza essere settari e senza perdere la bussola», riassume Brando Benifei, capodelegazione Pd a Bruxelles.

Parla anche Prodi. Una conversazione con Claudio Sardo, curatore della raccolta dei discorsi di Sassoli (La saggezza e l’audacia, Feltrinelli) sull’Europa e «le democrazie fragili». Nelle conclusioni Schlein cita più volte il professore. Ma nonostante gli omaggi, è chiaro che se non seguirà il suo “consiglio” e segnerà, per la prima volta, una scelta di autonomia da quello che fin qui è stato considerato il suo riferimento politico.

E non ci sarebbe niente di strano, se non fosse che, lo sanno tutti e lei per prima, il professore interpreta l’opinione di molti dirigenti dem: quelli che si sono fatti sentire sulla stampa, e – molti di più – quelli che non si sono espressi.

Ma la segretaria deciderà in proprio. O «con il partito», come dice per non avvalorare la tesi di una leader solitaria. Ma l’assedio che si stringe intorno a lei in questi giorni non la preoccupa. Il voto sull’Ucraina, con sei deputati e tre senatori che hanno detto sì anche alla risoluzione del governo, è un segnale d’allarme. Viene sospettata di voler piegare la linea del Pd verso il no all’aiuto militare.

Lei tira dritto, ribadisce che il Pd «sostiene con convinzione il popolo ucraino, con ogni mezzo necessario», dunque anche con l’invio di armi. Ma ha chiesto a tutti i suoi l’astensione sul testo del governo perché «al governo della destra non diamo deleghe in bianco». Bastava spiegarlo prima e meglio, le hanno detto in molti. Invece è finita con un’immagine di un Pd di nuovo diviso, e senza una leadership di polso.

La candidatura

Ma il vero malumore è per l’incertezza della sua corsa. Non la preoccupa che le liste in tutte le circoscrizioni siano per aria. Né il rischio che mentre lei ci pensa si stringano accordi, magari non amichevoli, fra grandi elettori: leggasi capibastone e capicorrente, soprattutto al sud, dove il sindaco di Bari Antonio Decaro prepara una partita più ambiziosa della semplice elezione a Bruxelles. Schlein ostenta certezze anche a chi l’avverte che un risultato stentato del Pd farà ballare la sua segreteria: «Il risultato secondo me sarà brillante».

Venerdì Piero De Luca, portavoce della corrente dei riformisti, le ha di nuovo chiesto «di sciogliere il nodo quanto prima». Ma per lei il «quanto prima» è il tempo che ha in testa e che nessuno conosce: «Aspetto di capire se siamo in grado di costruire una lista in grado di poter rappresentare la società che vogliamo costruire per l’Italia e per l’Europa. Io sono impegnata oggi a trovare la squadra, le individualità vengono dopo».

C’è anche la questione del terzo mandato ai presidenti di regione: lo vuole la Lega, FI e FdI non sono d’accordo, ma è in corso uno scambio tra la legge e i candidati alle regionali. Ed è un movimento che interessa tre governatori Pd: Stefano Bonaccini, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca.

Ma Bonaccini è praticamente già in corsa per Bruxelles. E allora lei ricorda, con finta ingenuità, che «le liste per le europee non devono essere una buonuscita per chi si trova a fine carriera. Lì si fa un lavoro duro». Ma a un collega di partito, che anche le chiedeva di accelerare i tempi per agevolare il lavoro degli altri candidati, risponde chiaro: «I candidati devono comunque correre».

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