Lungamente attesa, la sentenza del processo Eni – Shell Nigeria per corruzione internazionale che vede alla sbarra tra gli altri l'amministratore delegato dell'Eni Claudio Descalzi e l'ex ad Paolo Scaroni, ha disposto l'assoluzione di tutti gli imputati cancellando quasi otto anni di lavoro della procura di Milano. Quelli intercorsi dall'apertura del fascicolo d'indagine - nel 2013 - fino a ieri e utilizzati per indagare e poi consegnare al tribunale indizi, riscontri e percorso logico idonei a condannare i 13 imputati e le due società per la vendita dei diritti di esplorazione del campo petrolifero offshore Opl 245 nel 2011.

I giacimento nigeriano, per i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sarebbe stato venduto creando una maxi provvista da quasi 1,1 miliardi di dollari da distribuire ad alcuni uomini politici di Abuja, agli intermediari che hanno lavorato per trovare gli accordi, a ex dipendenti Eni come Vincenzo Armanna e forse anche ad altri vertici societari.

Nulla di ciò che è stato portato al collegio presieduto da Marco Tremolada (giudici a latere Mauro Gallina e Alberto Carboni) nelle 74 udienze di questo sterminato procedimento è stato utile a far propendere per la condanna. Con il risultato che i giudici, dopo tre anni di processo, in trenta secondi hanno liquidato la questione con una assoluzione omnibus «perché il fatto non sussiste».

La soddisfazione dei difensori

«Oggi a Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni il suo ruolo di grande azienda della quale l'Italia deve essere orgogliosa» ha detto a caldo l'avvocato Paola Severino, che ha difeso in questo procedimento l'amministratore delegato della multinazionale petrolifera italiana.

Nerio Diodà, il legale del Cane a sei zampe, ha aggiunto: «Questo processo fornisce un esito che possiamo considerare una garanzia di giustizia equilibrata per tutti i cittadini di questo paese. Noi abbiamo fiducia nei giudici».

Dichiarazioni legittime per chi ha portato a casa il risultato pieno, contando che per Descalzi i pm avevano chiesto 8 anni di carcere mentre il conto da pagare per le due società petrolifere sarebbe stato a nove zeri.

Si sarebbero viste confiscare, infatti, il miliardo e cento milioni di dollari che equivaleva al profitto del reato, per la loro imputazione ai sensi della legge 231 del 2001 che disciplina la responsabilità amministrativa.

Molto contento anche Antonio Secci, il difensore del potente uomo politico nigeriano Dan Etete (10 anni la richiesta per lui), ovvero il venditore del diritto di esplorazione di Opl 245 che «si è messo quasi a piangere quando lo abbiamo raggiunto al telefono».

Da Londra Ben van Beurden, numero uno di Shell ha sottolineato: «Abbiamo sempre sostenuto che l'accordo del 2011 fosse legittimo, finalizzato a risolvere una decennale controversia legale e far ripartire lo sviluppo del blocco OPL 245. Al tempo stesso, è stata per noi una difficile esperienza».

I punti in sospeso 

Questa sentenza non chiude, però, la questione nigeriana: la procura valuterà se fare ricorso e in quali termini dopo la pubblicazione delle motivazioni, previste tra 90 giorni.

Nel frattempo, però, resta in piedi la curiosa situazione degli intermediari Gianluca di Nardo ed Emeka Obi che sono stati condannati nel settembre del 2018 a quattro anni di reclusione per corruzione internazionale nella compravendita di Opl 245 nel processo con rito abbreviato davanti al gup di Milano Giuseppina Barbara.

In pratica si è provata la corruzione per due intermediari di questa maxi operazione condotta però da compratori e venditori di questi diritti che sono assolutamente specchiati.

Il prossimo 22 marzo ci sarà la requisitoria del processo di appello per i due: la procura generale chiederà, a questo punto, l'assoluzione per i due o resterà nel solco dell'accusa? A breve la risposta.

Il caso Congo

Il 25 marzo sarà poi il momento della verità anche per l'inchiesta sulla presunta corruzione di Eni in Congo: la società ha chiesto alla procura di patteggiare una pena ai sensi della legge 231 e contestualmente di riconsiderare il reato in «indebita induzione», la vecchia concussione che farebbe passare gli italiani come costretti a pagare nel Paese africano per ottenere le concessioni petrolifere. L'obiettivo è quello di far evaporare la parola «corruzione» dai pozzi africani Eni, per riconsegnare una verginità ancor più cristallina alla società dopo la sentenza Opl 245.

Sono due le questioni importanti che questa assoluzione solleva: la prima riguarda l'opportunità di perseguire ancore il reato di corruzione internazionale dopo le assoluzioni, in primo o in secondo grado, nei casi Finmeccanica – India, Saipem – Algeria e ora Eni – Nigeria. Le nostre norme permettono di perseguire realmente questo reato se ci sono gli indizi che qualcosa di anomalo sia successo?

La seconda attiene all'inchiesta milanese per il presunto depistaggio ai danni dei pm milanesi che hanno indagato in Algeria e Nigeria: manovre oscure per evitare agli inquirenti di arrivare alle prove necessarie. I risultati dell'indagine potranno cambiare la storia scritta ieri? Non resta che attendere.

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