Il segretario del Pd Enrico Letta ha capito prima di altri che la crisi era davvero possibile. Lo dimostra il fatto che all’inizio della settimana ha informato il suo staff che le vacanze estive sono sospese per tutti. Fino a nuovo ordine. Martedì scorso ha sentito tre volte Sergio Mattarella, prima e dopo aver incontrato Mario Draghi.

Ha drammatizzato i toni, ha insistito sullo spauracchio del voto, tutto per aiutare Giuseppe Conte nel suo tentativo di domare i grillini del Senato. La sua linea fino a ieri è stata la stessa di Draghi: nessun bis del governo e, per quanto riguarda il Pd, nessun appoggio ada altri esecutivi in questa legislatura.

Giovedì, mentre la situazione precipitava, ha spostato la traiettoria di un grado verso il Colle: il percorso lo decideranno Mattarella e Draghi «ma per noi serve verifica nella quale in parlamento e di fronte agli italiani ogni forza politica si assuma le sue responsabilità e dica cosa vuole fare rispetto alla prosecuzione di questa esperienza di governo».

Evitare il destino del predecessore

“Questa”, dunque non un bis: ma bisogna convincere Draghi. Se non ci sarà “questa” maggioranza sarà un colpo di grazia sul «campo largo» e sull’alleanza giallorossa. Il rinvio di Draghi alle camere da parte di Mattarella rimette Draghi in gioco. Ma se mercoledì la crisi non si chiuderà, Letta si giocherà una partita delicata: ha escluso di sostenere un nuovo governo, ma deve fare i conti con la tradizionale ostilità verso il voto dei gruppi parlamentari. Se ne sente già l’aria.

Il segretario Pd non può cambiare idea: rischierebbe di fare la fine del suo predecessore Nicola Zingaretti, nell’estate del 2019, dopo la crisi del Papeete, quando ha dovuto rimangiarsi la richiesta di elezioni, costretto dai gruppi parlamentari e da Matteo Renzi, uno che vede il voto come il fumo negli occhi, oggi come allora. Zingaretti ha dovuto cedere alla nascita del Conte II. Ha mantenuto il ruolo di segretario ma la sua autorità nel partito è stata fatalmente ammaccata.

Dalla sua però Letta ha un vantaggio rispetto al predecessore: la certezza che comunque vada, sarà lui a fare le liste elettorali. Il che lo rende più ascoltato. E temuto.

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