Immigrazione in Italia, tutto trasparente. O quasi. Se il cittadino medio italiano vuole sapere giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, cosa avviene ai nostri confini di terra e di mare, quanta gente è sbarcata o ha tentato di passare la frontiera che divide la Slovenia dall’Italia, quanti minori ci sono, di quale nazionalità, e dove sono stati collocati i migranti, basta un clic sul telefonino.

Un dito premuto sul sito del ministero dell’Interno per accedere al “cruscotto giornaliero degli sbarchi” voluto dal Dipartimento libertà civili e immigrazione, diretto dal prefetto Michele Di Bari. Trasparenza massima. Che cala bruscamente, fino a perdersi nelle nebbie di immotivati dinieghi burocratici, se ci si vuole addentrare in quel mondo complicato che è il sistema di accoglienza. Una realtà che nel corso dei decenni, delle Prima, Seconda e Terza Repubblica, e dei governi che si sono succeduti, ha subito mille modifiche.

Un mondo fatto di sigle e acronimi che mutano in continuazione a seconda degli obiettivi che si propongono le varie maggioranze governative e i ministri dell’Interno.

Norme che smentiscono quelle precedenti, codicilli, rimandi a leggi e a codici, una foresta burocratica nella quale anche il più esperto giurista è destinato a perdersi.

I dati segreti sull’accoglienza

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Action Aid, organizzazione internazionale indipendente che si batte contro povertà e ingiustizie, ha provato a mettere mano ai dati sull’accoglienza per costruire una mappa ragionata delle varie strutture, evidenziandone anche criticità e problemi. «L’obiettivo – spiega Fabrizio Coresi, antropologo specializzato in etnopsichiatria e policy advisor di Action-Italia – era ed è quello di offrire elementi all’opinione pubblica e alle forze politiche, che consentissero di basare il dibattito su temi delicatissimi come immigrazione, accoglienza e integrazione, su dati di fatto, verificabili e misurabili, e non su posizioni ideologiche. Ma è stata necessaria una sentenza del Tar per ottenerli».

Eppure il Viminale ha attivato lo Sga (Sistema informativo di gestione accoglienza), un database che dovrebbe assicurare il massimo delle informazioni. Coresi sorride, al ministero, ricorda, «ci chiedevano perché volevamo quei dati, noi rispondevamo sempre con una domanda: perché il sistema è così opaco? La realtà è che in Italia il dibattito, le tensioni e gli scontri sul tema dell’immigrazione, è basato sulla non conoscenza della realtà, o sulla sua distorsione. Fortunatamente il Tar ha riconosciuto le nostre ragioni e l’interesse dell’opinione pubblica a conoscere».

Quindi una vittoria, ma parziale, ammette Coresi, «perché la sentenza del Tar non ci consente l’accesso ai nomi delle società (cooperative, associazioni o imprese private) che gestiscono i Cas, Centri di accoglienza straordinaria, le strutture, appartamenti o alberghi, che ospitano i migranti richiedenti asilo, per fare una serie di verifiche sulla loro efficienza. Hanno invocato ragioni di privacy, ma noi quei dati non li avremmo mai pubblicati, ci saremmo limitati ad accorparli e ad usarli per i nostri rapporti».

Forse basta sfogliare le cronache dei giornali per capire il perché di tanta ritrosia delle istituzioni pubbliche, Viminale in testa, ad essere trasparenti fino in fondo e su tutto.

Poca integrazione, molti scandali

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Il sistema di accoglienza “imposto” alle comunità locali, senza accordi con Regioni e Comuni, fatto di grandi numeri e gestito dall’alto, in questi anni ha prodotto poca integrazione e tanti scandali.

L’esempio più clamoroso è quello del Cara (Centro richiedenti asilo) di Mineo, Catania. Il “Residence degli aranci”, 400 villette costruite dalla ditta Pizzarotti per le famiglie dei marines di stanza a Sigonella. Quando i militari americani andarono via, il villaggio fu destinato agli immigrati sbarcati nel 2011, durante l’emergenza Africa.

Per l’allora ministero dell’interno Roberto Maroni, Mineo era «una eccellenza, un simbolo dell’accoglienza, un modello in Europa». Per gli oltre 4mila rifugiati, un inferno. «Siamo in dieci in tre stanze e con un solo bagno, mangiamo solo pasta e riso. Non mi danno i 2,50 euro al giorno di pocket money». E’ la testimonianza disperata di un rifugiato del Gambia.

Nel 2019 il Cara di Mineo viene chiuso da un altro ministro dell’Interno leghista, Matteo Salvini, dopo uno scandalo che vede coinvolti esponenti locali dell’Ncd, il partitino di Angelino Alfano, e affaristi del circuito Mafia Capitale.

Nord o Sud, le stesse ruberie

Stesso scenario in Calabria, Isola Capo Rizzuto (fino a mille migranti ospitati), gestito dalla Misericordia, ma con una differenza, la presenza della “famiglia” Arena, una delle più potenti cosche di ‘ndrangheta del Crotonese. Quando nel 2017 scoppia lo scandalo, gli investigatori della procura di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri, scoprono che dei cento milioni arrivati alle associazioni che avevano gestito il centro nei dieci anni precedenti, ben 34 erano finiti nelle mani delle imprese mafiose. Altro che integrazione, i programmi erano scritti sulla carta, gli immigrati abbandonati a se stessi, e i controlli ministeriali scarsi, di facciata, spesso omertosi. Anche l’alimentazione degli “ospiti”, affidata a ditte di stretta osservanza mafiosa, era insufficiente.

I carabinieri scoprirono che un giorno arrivarono 250 pasti a pranzo per 500 immigrati presenti. Lo scenario delle ruberie sui migranti è sempre lo stesso, da Nord a Sud il meccanismo è collaudato. L’inchiesta più recente è in provincia di Ferrara, cinque Cas coinvolti, oltre 400mila euro destinati ai rifugiati sottratti e trasformati in auto di lusso, viaggi e altri benefit. Cibo scarso anche a Cassino, con dipendenti non pagati, locali fatiscenti, in alcuni casi si lesinava finanche sul latte destinato ai bambini: per risparmiare veniva allungato con l’acqua.

Anche per queste ragioni, se si parla con le varie associazioni, Ong, Onlus, che si occupano con serietà dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti, si raccoglie un grido di dolore unanime: basta con la logica dell’emergenza e dei grandi numeri, sì a progetti diffusi sul territorio.

«Forse questo è il periodo adatto per parlare di questi temi in modo serio. I dati e l’osservazione attenta della realtà ci dicono che l’invasione, bandiera sempre agitata dalla Lega e dai movimenti razzisti, non è alle porte. In Libia le persone in transito sono poche migliaia. Nei centri di detenzione pubblici ci sono poco più di 5mila migranti ristretti in condizioni disumane, in quelli gestiti da privati non ci sono dati attendibili. In ogni caso siamo ben lontani dalle 128mila richieste di asilo degli anni precedenti». Parla Filippo Miraglia, responsabile del settore immigrazione dell’Arci. «C’è poi il dato degli accordi col governo libico, ribaditi anche nella recente visita del presidente Mario Draghi. A differenza del premier noi non siamo “soddisfatti” per come la Libia gestisce il dramma dell’immigrazione, c’è una enorme questione umanitaria aperta. Il punto centrale è la stabilizzazione del paese. La Libia è stata da sempre in quell’area un punto di approdo per migranti che lì trovavano occasioni di vita e di lavoro. Se l’invasione non è alle porte, il tema di rivedere il nostro sistema di accoglienza è invece tutto sul tavolo. Lo dico in sintesi: gli anni di Salvini al Viminale sono stati devastanti. L’allora ministro dell’Interno del governo giallo-verde ha puntato allo smantellamento di un sistema diffuso sul territorio e in accordo con le comunità locali, gli Sprar, per favorire grandi centri e Cas gestiti direttamente dallo Stato. L’obiettivo era controllare, non accogliere. Quando tu ministero dell’Interno, attraverso le prefetture, decidi di aprire un Centro di accoglienza straordinario nella periferia di una grande città senza un accordo con chi vive in quella realtà, e lo affidi spesso a soggetti che non hanno alcuna esperienza nell’accoglienza e nell’integrazione, tu inneschi una bomba sociale. Ecco, in questi anni Salvini con le sue scelte ha investito sul conflitto sociale. Il governo Conte due e l’attuale governo, sembrano voler invertire la tendenza, ma ci sono ancora molte cose da fare e da correggere».

La svolta a metà del Conte 2

Migrants and refugees from different African nationalities wait for assistance aboard an overcrowded wooden boat, as aid workers of the Spanish NGO Open Arms approach them in the Mediterranean Sea, international waters, at 122 miles off the Libyan coast, Friday, Feb. 12, 2021. Various African migrants drifting in the Mediterranean Sea after fleeing Libya on unseaworthy boats have been rescued. In recent days, the Libyans had already thwarted eight rescue attempts by the Open Arms, a Spanish NGO vessel, harassing and threatening its crew in international waters. (AP Photo/Bruno Thevenin)

«Il governo Conte 2 ha sensibilmente riformato il decreto Salvini, ma siamo di fronte ad una riforma a metà, che si porta dietro tutti i problemi precedenti». Gianfranco Schiavone è vicepresidente dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e presidente del consorzio Ics. «Il sistema degli Sprar (la rete di accoglienza diffusa sul territorio gestita dai comuni, ndr), oggi Sai (Sistema di accoglienza e integrazione, ndr), nasce vent’anni fa come sperimentale, e lo è ancora, regolato dalla stessa base normativa. A Salvini non piaceva un sistema che puntava all’integrazione e che vedeva la partecipazione delle comunità locali. Ha preferito centralizzare tutto, mettendo al centro della gestione le prefetture, con gare d’appalto al ribasso, vince chi si offre al prezzo più basso. La cura degli esseri umani come quella dei giardini pubblici o del rifacimento dei manti stradali. Ovviamente ci sono anche esempi positivi, ma i Cas, soprattutto quelli più grandi, sono spesso vere e proprie discariche umane. La norma prevede che anche in queste strutture si facciano i corsi di italiano, ma sono quattro ore a settimana, per non parlare della scarsa, quasi inesistenza, assistenza psicologica e della mediazione linguistica, ridotta a pochi minuti al giorno».

L’ascesa dei maxi-centri

Per capire meglio la situazione, affidiamoci al “cronometro” del Viminale, scegliendo un giorno qualunque, il 15 aprile. Dal 1 gennaio di quest’anno, sulle coste italiane sono arrivati 8.505 migranti, 3.227 nello stesso arco di tempo dell’anno precedente, 625 nel 2019.

Al primo posto tunisini, ivoriani e profughi del Bangladesh, sensibilmente alto il numero dei minori, 1196, che si aggiungono ai 4687 arrivati nel 2020 e ai 1680 del 2019. I numeri sulla distribuzione nelle varie tipologie di centri di accoglienza confermano l’allarme delle organizzazioni umanitarie.

Su 76.305 migranti presenti, 129 sono rinchiusi negli hot-spot (tutti in Sicilia), 50769 nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), 25407 negli ex Sprar, oggi Sai.

«E’ lo Stato che dal centro gestisce direttamente l’accoglienza, gli enti locali sono fuori. E questa è una anomalia assoluta, uno scenario che ci riporta molto indietro. Se vogliamo dirla tutta, è con questa logica e con le scelte conseguenti di depotenziamento di un sistema di accoglienza che costruisce l’integrazione, che la Lega ha vinto, non sull’ideologia dei porti chiusi”, ci dice Gianfranco Schiavone.

«Lo Stato dovrebbe occuparsi in prima persona di quella accoglienza immediata che serve alle prime cure e all’identificazione del migrante sbarcato, che subito dopo dovrebbe essere inserito nel programma di accoglienza e integrazione garantito dagli ex Sprar», è l’opinione di Filippo Miraglia dell’Arci.

La realtà, invece, è diversa. «Quando parliamo di riforma a metà dei decreti Salvini – commenta Schiavone – ci riferiamo al fatto che il ministero dell’Interno non ha ancora emanato i nuovi bandi per i Comuni che vogliono aderire al sistema ex Sprar, mentre ha emanato i nuovi capitolati d’appalto per i Cas fatti dalle prefetture. Parliamo di cifre che si aggirano sui 28 euro pro capite, comprensive di tutto, alloggio, cibo, vestiario, spese per il personale, programmi per l’integrazione, e pocket money. Vince chi offre la cifra più bassa e chi lavora sui grandi numeri. Più grande è il centro, più sono in grado di fare economia di scala. Siamo di fronte ad un sistema assistenziale di bassissimo profilo, gestito in modo burocratico, e senza alcuna programmazione sul territorio».

E i migranti stanno sempre peggio

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Le conseguenze di questo sistema di appalti, con affidamenti che non analizzano le esperienze in materia di integrazione dei vari concorrenti, incidono pesantemente sulla qualità della vita degli ospiti e sulla possibilità della loro integrazione. Le ha analizzate Duccio Facchini, direttore di Altraeconomia.

Le gare per i Cas vanno spesso deserte a causa dell’abbassamento dei costi fissato da Salvini, vanno via le organizzazioni umanitarie che ormai non partecipano più alle gare, resistono solo le grandi strutture. Insomma, basta avere un albergo che non rende più, una serie di appartamenti da far fruttare, e il gioco è fatto.

L’esperienza accumulata, il personale specializzato (psicologi, mediatori culturali, assistenti sociali) da mettere a disposizione, contano zero. A quel punto, bene che vada, il migrante ospitato avrà a mala pena un letto e del cibo, per il resto, sarà abbandonato a se stesso.

Quei ragazzi che vedete davanti al supermercato e vi chiedono un euro, spesso sono ospiti dei Cas lasciati in balia di se stessi e con una vita vissuta nella più totale inattività. In queste strutture, la media è un operatore ogni 50 ospiti, il tempo medio per la mediazione linguistica è di 1,7 minuti al giorno per rifugiato. Come si vede, l’integrazione e l’inserimento nel tessuto sociale, sono una chimera, chiacchiere buone per qualche slogan.

La rete Europasilo, il 16 aprile scorso ha tenuto un convegno sulla “Accoglienza di domani”. L’obiettivo è fissare «il tetto massimo di capienza di ogni Cas in 100 posti, dando la priorità nei capitolati a scelte progettuali che adottino gli standard del Sai (ex Sprar)». Per Europasilo bisogna superare anche le criticità del sistema ex Sprar che ne hanno determinato «una costante precarizzazione». Il sistema deve configurarsi «realmente diffuso in modo capillare sul territorio», con l’obiettivo dell’inclusione sociale, sia dei richiedenti asilo, sia dei titolari di protezione internazionale.

Associazioni e reti di solidarietà puntano ad un sistema di accoglienza che sia gestito dai Comuni e dalle realtà locali, con una programmazione delle ripartizioni, oggi solo sulla carta, che tenga conto della popolazione e delle condizioni socio-economiche.

Il sospetto, supportato dall’analisi dei dati, è che negli anni della furia salviniana, si sia imposto un meccanismo che viaggiava su due binari: portare l’accoglienza nelle mani del Viminale, ridurre il ruolo del sistema più virtuoso, ex Sprar, concentrandolo soprattutto al Sud del Paese.

Un altro punto che vede le associazioni umanitarie concordi, è quello di superare la volontarietà da parte dei Comuni nell’adesione al sistema ex Sprar.

I numeri ci dicono che su 25mila migranti ospiti in queste strutture, oltre 11mila sono concentrati al Sud e nelle isole, il ricco Nord ne ha 8.900, 4.900 le regioni del centro. Il momento è ora, dicono parafrasando Martin Luther King e il suo celebre discorso le varie associazioni. Ora, che non ci sono invasioni all’orizzonte – vere o propagandistiche e ideologiche – si può cambiare tutto e puntare alla riforma radicale del sistema buttando a mare tutta la zavorra e le ambiguità dei decreti Salvini.

L’occasione per cambiare qualcosa

Gian Mattia D'Alberto / LaPresse 05-11-2015 Milano cronaca Inaugurazione Anno Accademico Università Cattolica nella foto: Mario Draghi Gian Mattia D'Alberto/LaPresse 05-11-2015 Milan Cattolica University in the picture: Mario Draghi

Ce la farà il governo di Mario Draghi, con la Lega al governo e radici ben piantate nella potente burocrazia del Viminale, a fare questa scelta? Vedremo.

Quello che è certo è che un sistema di accoglienza basato esclusivamente sul “contenimento”, appaltato anche a soggetti che hanno come unico fine il profitto, non produce integrazione, ma tensioni sociali sui territori. E’ una logica perdente, la stessa che in tutti questi anni di migrazioni ha condizionato visioni e scelte politiche su partenze e sbarchi.

Anche qui studi e dati sono chiari. Il problema non è solo italiano, ma del mondo e dell’Europa. L’antropologa Maria Cristina Molfetta ha analizzato alcuni dati dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) per il rapporto della Fondazione Migrantes (Il diritto d’asilo. Costretti a fuggire, ancora respinti).

Nel 2019 1,4 milioni di persone avevano la necessità di essere spostati dai loro paesi d’origine a causa di guerre, e accolti come richiedenti asilo e rifugiati. Ma solo a meno del 10 per cento è stato concesso questo “privilegio” attraverso canali ufficiali. In Europa le persone arrivate sono state poco più di 29mila, l’Italia con 1.355 arrivi ufficiali è all’ultimo posto tra i paesi europei. Tutto il resto degli arrivi è affidato ai grandi trafficanti di esseri umani.

Per Frontex (l’agenzia europea che si occupa di frontiere) 14mila rifugiati hanno usato la rotta libica nel 2019. Ingrassando la grande mafia del traffico umano e trasformando il Mediterraneo in un mare di morte.

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