Funebre o al merito che sia, Fabio Fazio è esposto, che lo paventi o meno, all’“effetto monumento”, come è successo con la dipartita di Maurizio Costanzo e come accadrebbe se Bruno Vespa in un sussulto di vitalità si traferisse a Tahiti armi e bagagli. Tutto perché a questi affetti esagerati ci abitua la tv del “pasto fisso”.

La faccenda non sorprende perché i mass media sono paesaggi su cui lo spettatore posa l’occhio cercando non l’imprevisto, ma spazi consueti di risata, sonno e riflessione. Ed è evidente che format di programmi replicati sostanzialmente uguali per decenni lasciano un vuoto se il destino dei mortali o un terremoto di potere se l’inghiotte.

Ma poi, in poche settimane le macerie son spostate, e qualcosa arriva in onda, mentre il pubblico è più che ben disposto ad accogliere il neonato. Tuttavia stavolta la cosa non è scontata perché, pur nel suo implacabile ripetersi, con Fazio la Rai presidiava un vero incrocio di culture “progressiste”, dai libri alla scienza, dalle arti alle lezioni del vivere comune. Riuscirà il tartufismo bilioso e presuntuoso della Destra a sostituire quel tipo di prodotto con forme solide? O darà il via a un velleitario avvicendarsi di baracche? Presto lo sapremo.

Autore ed editore

Intanto proprio Fazio offre lo spunto per capire il rapporto che corre, in televisione come altrove, fra l’autore e l’editore e come meriti e demeriti si spartiscano fra i due.

Fazio ha iniziato a fare televisione a metà degli anni ’80, neanche maggiorenne, segnalandosi come imitatore e, a segnalare il valore del ragazzo, riuscì a non esserlo per sempre. Angelo Guglielmi lo trovò su Rai Tre, conduttore di Jeans, un incontro con i protagonisti della musica leggera, che godeva del suo essere di nicchia e al riparo dalla condanna degli ascolti. Ci volle qualche anno perché la direzione, imbroccasse, per calcolo e fortuna, con Fazio, l’ideale conduttore di un programma già in cantiere: Quelli che il calcio. Il successo fu immediato e la ragione era evidente. Il garbo e l’ironia di Fazio si sposavano con una potentissima energia, uno tsunami, introdotto dal di fuori, che forniva ogni occasione di mettere in mostra la prontezza di riflessi e la battuta. A garantire la massa d’energia alla macchina del programma provvedeva il collegamento con tutti i campi calcio della serie A, quando il campionato era un evento non ancora spappolato.

Fazio che replica Fazio

Da allora Fazio ha sostanzialmente replicato la formula dell’uomo sulla tavola che scivola e danza su un’onda di fortissimo interesse. A questo si prestava, va da sé, la conduzione di Sanremo; a questo è servita la concezione di Che tempo che fa come una sorta di Stati generali permanenti con afflusso di recordmen, pop singer, successori di Toscanini e premi Nobel, a conversare con un conduttore che aveva una faccia giusta per ognuno. Che tempo che fa, se non sbagliamo, Fazio voleva farlo in Rai come striscia quotidiana di seconda serata, ma l’azienda non ci stette perché il Letterman italiano già ce l’aveva, si chiamava Vespa ed era suscettibile.

Così idea, autore e format si volsero nel 2001 alla nuova La7 di Telecom. Senonché i Colaninno e i Pelliccioli, che ormai Telecom l’avevano spremuta, batterono ben presto in ritirata e La7, priva di orizzonti commerciali (aveva appena vinto Silvio Berlusconi), rientrò nel ruolo di foglia di fico del duopolio, mentre Fazio, dopo un Purgatorio di due anni, rientrava in Rai. Per una lunga serata settimanale su Rai Tre, poi su Rai Uno, poi di nuovo su Rai Tre, a seconda delle maggioranze espresse nella lottizzazione del cda messa a punto in parlamento.

Negli ultimi venti anni la capacità editoriale della Rai si è progressivamente affievolita. Non, s’intende, per quel tanto di mestiere che serve ad affrontare imprese come Sanremo o la produzione di fiction tutto sommato migliore d’una volta e dotata di maggiore percezione del mercato. Ma il tutto si svolge nell’ambito di una sorta di “outsourcing del cervello” presso agenti e produttori, perché se al parlamento piace un’azienda dal respiro corto e pronta a recepire lo strattone delle briglie, è fatale che nelle stanze, anche in particolare quelle altolocate, si rinsecchiscono i neuroni.

Format e conduttori

La conseguenza è che la monumentalizzazione di format e conduttori diviene sistema per l’impossibilità di concepire obiettivi editoriali diversi dall’esistere e resistere. Le direzioni dei programmi, comunque si denominino (di rete o di genere) non scuotono i loro palinsesti e non sollecitano idee nuove perché gli pare già gran cosa contare sulle vecchie.

Questa inerzia direzionale è alla base della replica del già visto e collaudato, che provenga dalle bancarelle dei format internazionali o della reiterazione di facce e programmi nostrani sempre uguali (al netto di preziosità sfogate in palinsesto, in spazi di cerniera).

Queste sono le considerazioni che inducono a pensare che Fazio sia in effetti una perdita per la Rai, ma solo perché l’azienda non è più in grado di creare e pretendere creazione. Fra gli spettatori c’è stato di sicuro chi, dopo tanta consuetudine, alla fine s’è stufato. Ma, tra questi stessi e quelli che hanno resistito, qualcuno di certo allungherà il telecomando su Discovery sperando di trovarci un sapore conosciuto, ma rinnovato da un colpo di struttura. Hai visto mai che sia giunta l’ora di quell’appuntamento sera dopo sera che finora invano fu inseguito? Giusto per non ritrovarsi con un Che tempo che faceva.

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