Ha mollato, ma dopo aver combattuto come un leone contro il Covid-19, anzi come un «lupo marsicano» come lo definiva Marco Pannella, abruzzese come lui, il cattolico e il laico ma un’amicizia di una vita, rocciosa come il Gran Sasso, il guardiano della piana dei Navelli, dov’è nato. Franco Marini è morto a 87 anni, ieri notte a Roma, per le conseguenze del contagio, che pure aveva sconfitto. Un grande democratico italiano, figlio di un operaio della Snia di Terni, credente e devoto ai partigiani della Brigata Majella.  «Credeva nella libertà come presupposto della democrazia», lo ha salutato Pierluigi Castagnetti, dopo di lui segretario del Ppi.

Entra nelle Acli e diventa sindacalista della Cisl, dall’85 ne fu il segretario. Poi passa in parlamento, orgoglioso dei voti che prende a Roma, lui non romano, contro Vittorio Sbardella, «lo squalo» della corrente andreottiana, il monumento della Dc opposta alla sua. Quando la Dc si sgretolò sotto i colpi di macete di Tangentopoli, è fra i fondatori dei Popolari, un centro che guardava a sinistra e che infatti lui poi traghetta nell’Ulivo. Ma non gli piaceva il partito che si era formato intorno a Prodi, soprattutto vedeva il rischio dei partiti personali, «questo Asinello mi sembra un somaro». Nel 2001 è fra i padri nobili della Margherita. Poi del nuovo del centro-sinistra. E anche se poi è fra i fondatori del Pd, mai avrebbe voluto che al centrosinistra venisse meno la radice popolare e cristiana, la vicinanza con i lavoratori.

I cronisti più anziani ma ancora in servizio lo ricordano presidente del senato dal 2006, il secondo governo Prodi. Fu eletto battendo il senatore a vita Giulio Andreotti. Alla caduta di Prodi ebbe l’incarico di «esploratore» dal presidente Giorgio Napolitano per provare a formare un esecutivo, ma non era cosa, lo spiegò al capo dello stato che sciolse le camere.

Erano gli anni in cui l’aula di palazzo Madama era un campo di battaglia, ma le esplosioni più forti, anche contro i suoi, erano quelle del presidente. Marini aveva un carattere fumantino. Ma prima di tutto, prima della politica, c’era la sua stoffa umana, la profondità dei sentimenti, dei lutti – aveva perso la moglie nel 2012 - una densità personale, se uno non ce l’ha non se la può dare. In politica come nella vita. «Non dimenticò mai le battaglie sociali che hanno costantemente caratterizzato la sua vita», scrive il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, «l’intransigente difesa delle ragioni dei più deboli e della libertà dei corpi sociali nel quadro della Costituzione: credeva fermamente nella loro funzione». 

Ed è proprio intorno alla sua mancata elezione al Colle che il Pd segna uno dei bivi più neri della sua storia politica, e imbocca la strada che lo porta fino ai nostri giorni, a queste ore. Nel 2013, dopo la «non vittoria» del Pd alle politiche, l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani propone lui come successore di Napolitano. I Cinque stelle proponevano Stefano Rodotà. Invece Marini non era sgradito a Berlusconi, che ne ricordava l’equilibro da «presidente di tutti» al senato. Bersani era convinto che nessuno dei suoi potesse dire no a una personalità così autorevole.

Lo annunciò dal palco di una drammatica riunione notturna al cinema Capranica. Parlò in suo favore solo Stefano Fassina, a sorpresa: era l’ala sinistra del Pd, pregò i suoi compagni di eleggere un presidente vicino ai lavoratori. Nichi Vendola, leader di Sel, si imbufalì e guidò i suoi fuori dal teatro. Si ruppe il nuovo centrosinistra, l’alleanza Italia bene comune, faticosamente ricostruita dopo gli anni della vocazione maggioritaria di Veltroni. Nella sala rimasero i parlamentari del Pd. Tirava aria fredda e ipocrita. Al momento del primo scrutinio  mancarono i voti. Matteo Renzi, sindaco di Firenze, lo affossò con una lettera a Repubblica: «Due mesi fa Marini si è candidato al Senato della Repubblica dopo aver chiesto (e ahimè ottenuto) l’ennesima deroga allo Statuto del Pd. Ma clamorosamente non è stato eletto», scrisse, «Difficile, a mio avviso, giustificare un ripescaggio di lusso, chiamando a garante dell'unità nazionale un signore appena bocciato dai cittadini d’Abruzzo».

Iniziava la furia della rottamazione. Renzi non fu affatto solo. Dall’Emilia Romagna arrivò la stessa indicazione contro Marini ai parlamentari eletti da quella regione. Segretario regionale del Pd era Stefano Bonaccini, bersaniano fino a quel giorno. Qualche giorno dopo lo schema si ripete contro Prodi, i famosi 101 voti anonimi e mancanti. Tutti voti per tirare già Bersani dalla segreteria del Pd. Marini di voti ne prese comunque tanti:  521, ne servivano 150 di più, ma resta l'unico non eletto nella storia della Repubblica ad aver ottenuto la maggioranza assoluta in uno scrutinio. «Facevamo fatica a spiegare che un presidente della Repubblica doveva essere presidente di tutti, allora, sembra un secolo fa», ricorda Fassina, «per me è stato un maestro, un grande leader del movimento cattolico dei lavoratori, un garante del senso culturale e politico del Pd alla sua nascita.

Le conversazioni con lui, Pierre Carniti e Emilio Gabaglio sono state lezioni indimenticabili, tre giganti». Quella sconfitta per Marini fu «la più grande delusione». L’importanza di essere Franco fra gente poco franca: subì l’ipocrisia di un corpo parlamentare che di lì a poco si avviò alle larghe intese con Forza italia. Oggi, rottamata ormai la rottamazione, alla vigilia di una maggioranza che si spinge ben oltre l’ex cavaliere, nel Pd che si finge smemorato è gara del cordoglio, di fiumi di lacrime, di «ciao» con tanta stima. 

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