In questo momento la poltrona che scotta di più è quella di Giancarlo Giorgetti. Barricato nel dicastero di via XX Settembre, il ministro dell’Economia ha la scrivania piena di dossier, proprio nei mesi peggiori dell’anno, in cui va approvata la legge di Bilancio. Il Mes non ancora ratificato, la rinegoziazione del Patto di stabilità ma anche le stime di crescita negative sono solo tre delle questioni più urgenti su cui Giorgetti è chiamato a dare risposte.

Nei giorni scorsi si è svolto un vertice di maggioranza proprio su questo e il ministro ha illustrato lo stato dell’arte dei negoziati, sui quali non ha potuto che constatare le enormi difficoltà sul piano europeo.

«Piena sintonia e collaborazione», è stato lo spin di palazzo Chigi al termine dell’incontro, ma tra lo staff del Mef c’è la consapevolezza che la via sia sempre più stretta e alcuni sacrifici andranno fatti in termini politici per sbloccare la situazione. Uno tra tutti la ratifica della riforma del Mes, il meccanismo salva-stati che è un trattato internazionale e il mancato via libera dell’Italia blocca anche tutti gli altri sottoscrittori.

Giorgetti sarebbe stato disponibile a ratificarlo già nei mesi scorsi e aveva dato segnali aperturisti in tal senso, ma con la sua consueta attenzione a misurare le parole. Anche perché partecipare ai vertici europei con gli omologhi che da mesi chiedono a gran voce la ratifica non è stato semplice né gradevole per il ministro.

La premier Giorgia Meloni, invece, ha ritenuto di temporeggiare ancora. Ormai, però, il tempo sta scadendo: il 22 novembre tornerà alla Camera la mozione per ratificare il Mes. Era entrata in calendario con un blitz delle opposizioni e la maggioranza ha solo potuto rimandare. L’unica chance per posticiparlo ancora sarà quello di far leva sull’ingorgo dei lavori d’aula, così da rimandare la scadenza ancora fino a dicembre.

L’obiettivo di Meloni sarebbe quello di guadagnare tempo in modo da tornare a discuterne dopo l’Ecofin dell’8 dicembre, che ha all’ordine del giorno un nuovo accordo sul Patto di stabilità. Il piano del governo, quindi, non è cambiato e anche mercoledì la premier ha detto che «sul Mes per me non è cambiato niente».

Come a dire: la ratifica non ci sarà senza una rinegoziazione complessiva, con un restyling del Patto di stabilità e il completamento dell’unione bancaria. E pazienza se si tratta di quella che a Bruxelles viene considerata una forzatura per nulla gradita.

La manovra

Il clima non è migliore sul piano interno. Giorgetti continua a difendere con convinzione la manovra uscita dai suoi uffici e ne ha ribadito gli assi portanti. «Prudente» visto lo stato dell’economia ma «espansiva nei confronti dei redditi medio-bassi», sono le parole d’ordine usate.

Su un punto, però, è rimasto fermo: per far correre veloce il testo in parlamento la maggioranza deve dare prova di unità e dunque non presentare emendamenti. Una questione controversa che non ha fatto gioire gli alleati e in particolare Forza Italia, ma su cui Giorgetti ha trovato la sponda di palazzo Chigi. Il rapporto tra lui e Meloni rimane di «piena sintonia», ribadiscono fonti ministeriali. Del resto, il ministro si muove sempre più da tecnico e si è assunto il ruolo di arbitro severo, che non accetta condizionamenti nemmeno dai ranghi del suo partito.

L’intransigenza è temperata solo da qualche apertura a modifiche in materia di pensioni ma poco altro. La strada imboccata è ormai decisa e la situazione economica è difficile, come lo stesso Giorgetti ha dovuto ammettere, e il Pil potrebbe crescere ancora meno rispetto alle stime.

Secondo le previsioni economiche d’autunno diffuse da Bruxelles, l’economia italiana crescerà dello 0,7 per cento nel 2023, in discesa rispetto allo 0,9 atteso a settembre, mentre l’anno prossimo dovrebbe salire allo 0,9 per cento. Un piccolo miglioramento, ma inferiore alla media della zona Euro che è del più 1,2 per cento.

La linea di Giorgetti, però, è quella di separare i piani: la situazione nel paese è difficile e lui per primo non ne ha fatto mistero, ma sul piano politico la sinergia con palazzo Chigi e il resto del governo rimane forte, spiegano fonti vicine al Mef.

La linea Draghi

Eppure, la sensazione che filtra dai ranghi della maggioranza è che il crinale sia sempre più sottile e Giorgetti sia il parafulmine su cui si abbatteranno le due distinte questioni del Mes e della Manovra. Anche se l’accostamento non piace al ministro e nemmeno a Meloni, il nome di Mario Draghi viene spesso ripetuto tra chi in questa fase analizza le mosse di Giorgetti.

L’ex presidente del Consiglio aveva indicato come strada obbligata la ratifica del Mes e messo in guardia sulla necessità di procedere in modo cauto sui conti perché l’economia nazionale è ancora fragile e Giorgetti di questo – pur da un piano politicamente diverso – si è fatto interprete. Con la consapevolezza, poi, che l’unico vero motore possibile per spingere l’economia italiana fuori dalla stagnazione sia la corretta realizzazione del Pnrr.

Il problema, però, sono i paletti che il governo si è dato: il no al Mes con il deciso «mai col mio governo» pronunciato da Meloni e le molte promesse economiche – dalla cancellazione della riforma Fornero sulle pensioni agli investimenti – che la prima Finanziaria davvero politica (l’anno scorso l’impostazione generale era stata fissata dal governo dimissionario di Draghi) ha disatteso.

Quanto al Mes, la settimana prossima il dibattito si preannuncia esplosivo e la strada rischia di essere obbligata: un no alla Camera alla ratifica renderebbe ancora più in salita i negoziati europei. Meloni dovrà trovare una chiave per uscirne, ma non sarà facile convincere i più recalcitranti soprattutto della Lega che un mezzo sì al Mes non sia un tradimento.

Giorgetti, invece, aspetta il giudizio dell’Ue sulla sua manovra, che arriverà il 21 novembre. Un passo per volta ma tutti portano inevitabilmente a Bruxelles, dove il governo e soprattutto Giorgetti si trovano in una posizione sempre più minoritaria.

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