Alcune novità in tema di natalità, famiglia e inchieste giornalistiche contenute nella bozza di contratto di servizio pubblico per il quinquennio 2023-2028, anticipata nel Consiglio di amministrazione della Rai di lunedì scorso, hanno richiamato alla mente una vecchia ricerca sui valori e i modelli sociali proposti dalla programmazione Rai, commissionata fra il 1968 e il 1972 dall’allora glorioso Servizio opinioni che, guarda caso, considerava proprio temi quali tv e famiglia, tv e figli e tv e donne.

Il contratto di servizio è il documento nel quale il governo, nella figura del ministero delle Imprese e del Made in Italy, e la Rai, stabiliscono un «insieme di obiettivi, di indirizzi operativi, di parametri di qualità, di tipologie di programmi». Dunque, quello che vedremo o non vedremo nei prossimi cinque anni sui diversi canali e piattaforme dell’ente pubblico dipende in buona parte da questo documento.

Il modo in cui, anche sulla Rai, il governo sta procedendo, conferma una hỳbris di occupazione e di cadreghe che va oltre una normale logica di riequilibrio e di alternanza, nobilitate dall’ambizione di dare vita a una nuova «narrazione», parola totem del melonismo, più aderente rispetto alla realtà e al sentire del paese. La Rai dunque come chiave di volta della nuova «egemonia culturale» di destra.

Nuovi obiettivi

In ottemperanza a queste missioni più politico-ideologiche che culturali-editoriali, nella bozza del nuovo contratto di servizio, nella parte relativa agli obiettivi della Rai è stata espressamente inserita la «promozione della natalità», che andrebbe ad affiancarsi a quella «della famiglia e della genitorialità», anteponendole nel documento al punto dedicato alla diffusione dei valori dell’accoglienza e dell’inclusione.

Avendo presente le idee e le politiche di questo governo in materia di famiglie, figli, genitori, viene da domandarsi come la futura Rai sarà chiamata a tutelare e promuovere questi valori e, soprattutto, con quali attenzioni e considerazioni verso possibili visioni di natalità, famiglia, genitorialità non conformi o non collimanti a quella del governo. 

Questa idea dalla Rai come di un orwelliano diffusore e tutore di una precisa visione della società e dei valori, che per la sua efficacia deve essere uniformato e sottoposto al pensiero egemonico tramite un rigido controllo dei programmi e dei contenuti, è molto vecchia e al contempo anacronistica. Anche Giorgia Meloni, nel corso del suo recente intervento alla Giornata mondiale contro le droghe ha suo malgrado constatato che mentre lei, tramite i nuovi vertici Rai, cerca di mettere un tappo alle falle e derive culturali del servizio pubblico, la straniera Netflix si permette di raccontare in toni chiaroscuri la vicenda di San Patrignano e molte serie hanno come protagonisti dei cattivi.  

La ricerca

Nell’analizzare i contenuti dei programmi proposti da una Rai in bianconero, controllata ancora direttamente dal governo e, contrariamente alle sue nostalgiche rievocazioni, sottoposta a una vigilanza editoriale e a una censura informativa molto rigide, i curatori della vecchia ricerca Rai, fra cui il sociologo Francesco Alberoni e l’antropologo Tullio Seppilli, annotavano che il fondamento primario dell’esistenza femminile in televisione è il momento amoroso, la capacità di amare in cui la donna realizza o dovrebbe realizzare tutta sé stessa, come fidanzata e moglie prima e come madre poi.

Nei programmi viene rappresentata quasi sempre come casalinga, senza ruoli extradomestici, che comunque sono sempre compatibili e integrabili con quelli domestici. Raramente è investita di ruoli autoritativi: l’autorità sia essa politica, giuridica, burocratica, familiare, scientifica, etc, resta una prerogativa fondamentalmente maschile.

Il bambino è soprattutto visto nell’ambito della famiglia, indicata come l’ambiente ideale della vita e del suo sviluppo, dimenticando altri ambienti della vita e dell’educazione infantile, certamente importanti e integrativi come la scuola e il gruppo amicale.

Inoltre, il modello positivo del rapporto adulto-bambino viene solitamente rappresentato in famiglie di ceto medio-alto, mentre nei ceti popolari si tende a presentare situazioni familiari e infantili più problematiche. Infine, la rappresentazione di famiglie in crisi è pressoché assente e, nei pochi casi, si giunge alla ricomposizione del conflitto o del malinteso. Nel 1970, anno in cui venne finalmente approvata la legge e il tema era al centro del dibattito e del discorso pubblico, la parola “divorzio” risultava completamente assente nei programmi leggeri e trattata solo dal 2 per cento di quelli giornalistici.

Un controllo anzi, una “egemonia” ferrea sui contenuti e una “narrazione” dell’Italia che avrebbe dovuto garantire lunga vita alla maggioranza e quella visione di paese e società.

Utopia spazzata via due anni dopo dal referendum sul divorzio che dimostrò che l’Italia, e proprio le donne e i ceti più popolari e del sud, si erano emancipati da quel tipo di “narrazione”. E poi, se la potente macchina televisiva è stata per anni dominata dalla sinistra, com’è che a vincere le recenti elezioni è stato un piccolo e marginalizzato partito politico? Insomma, una visione moderna della Rai e dell’industria culturale nel suo complesso, con i suoi processi, attori e pubblici, non si esaurisce nel promuovere per statuto la natalità e nel piazzare i propri cantori.

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