Il dibattito sul Partito democratico e dentro il Pd è entrato in una nuova fase. Si riparla di congresso: per alcuni un modo per tentare la scalata al partito; per altri (più saggiamente) per riparlare del tema dell’identità. Che ci sia agitazione dal punto di vista interno non deve scandalizzare: se c’è desiderio di accedere alla segreteria significa che il partito esiste ed è appetibile. In fondo è una buona notizia. Più interessante discutere di identità politica.

Una cosa salta agli occhi: il Pd ha lo stesso problema di tutta la sinistra occidentale. Il tema è: come ripensare l’identità della sinistra dopo il fallimento del social-liberismo alla Blair o Clinton. La globalizzazione e la sua involuzione verso maggiori diseguaglianze ha fatto crollare le speranze nella “terza via” degli anni Novanta. Ma più grave è stato il divorzio tra liberismo/neoliberismo (cioè tra l’economia di mercato) e la democrazia. Da quando i regimi autoritari hanno dimostrato non solo di accogliere il liberismo ma anche di saperlo usare meglio delle democrazie, i problemi per la sinistra si sono moltiplicati. È utile sottolineare tale aspetto per non fermarsi alla superficie, come sembrano fare alcuni media estetico-progressisti che commettono l’errore di personalizzare la questione (Zingaretti sì o no).

Non è la leadership

In realtà il tema è molto più profondo che una mera questione di leadership: si tratta di una domanda a cui nessuno dentro la sinistra occidentale ha trovato una risposta convincente. Il problema dell’identità della sinistra si lega da una parte a quale risposta dare per contrastare le diseguaglianze e dall’altra a come reagire politicamente al populismo. Uno dei fondamenti ideali della sinistra è la convinzione che con la (buona) politica si possano cambiare le cose. Ma quale politica? Perdita di prestigio, ciclo mediatico, presentismo, debolezza intrinseca, leaderismo che si autorottama, smarrimento dei cittadini e mancanza di fiducia, critiche internazionali e sfida dei sistemi neo-autoritari: tutto è in campo per depotenziare l’idea stessa di democrazia. Se, come sostiene Giuseppe Benedetto, presidente della fondazione Einaudi, i liberali sono alla ricerca di riferimenti, lo stesso si può dire dei progressisti.

Davanti a tale sfida la risposta non può essere nostalgica. Limitarci a rimpiangere la “repubblica dei partiti” (che pure è nata con la Resistenza e ci ha regalato la democrazia) non serve a molto. L’indebolirsi dei “corpi intermedi” ha una sua logica storica e non sarà il rimpianto a riportarli in vita. Allo stesso tempo occorre resistere senza rassegnarsi. La globalizzazione è forte ma non è onnipotente e spesso crea problemi che non sa risolvere. Ciò è divenuto evidente con la pandemia. Esiste un umanesimo democratico che va difeso e a cui trovare nuove fondamenta.

Il problema è la solitudine

Numerosi osservatori lamentano il fatto che nelle democrazie la politica abbia perso mordente, lasciando il posto alla disaffezione o al populismo (la cattiva politica). Di conseguenza si cercano risposte individualistiche, ritagliando i diritti sul piano dell’individuo fino all’intersezionalità (che il grande pubblico non sa nemmeno cosa significhi). Ma è proprio la solitudine dell’individuo (la solitudine liberale si potrebbe dire) il vero problema. La risposta non può essere che collettiva: non una sommatoria ma un nuovo interesse generale che parta dal basso: dalle sofferenze sociali. Dare una risposta alla domanda di identità della sinistra diviene più semplice di quanto appaia: la politica ritrova sé stessa e il suo credito solo se affronta tali sofferenze senza paura.

Non è questione di scelte ideologiche o di frammentazione identitaria e nemmeno di interminabili mediazioni, ma semplicemente di gestione sul lungo periodo della collettività. Se qualcosa non funziona nella società va trovata una soluzione che non sia emergenziale: ne va della qualità della democrazia stessa. Il montare del risentimento sociale il pericolo più grave: rappresenta una sfida interiore della società. La storia dimostra che quando i ceti medio-bassi non si sentono ascoltati né presi in considerazione, quando il timore del declassamento delle classi medie diviene forte, si rischiano avventure autoritarie o quantomeno populiste. Tale è la ragione del favore di cui gode il populismo: focalizza il malcontento e dà l’impressione di poter risolvere almeno qualche problema (come quello della povertà ad esempio).

Il populismo crea così il suo (falso) popolo. La sinistra deve evocare quello vero che non può essere fatto a sezioni… Proprio su tali ceti che si rinsaldano solidalmente si basa il nuovo consenso democratico. La sinistra deve farsene carico con urgenza: la posta in gioco è la crisi del convivere sociale.

Bisogno di autorevolezza

Ridare autorevolezza alla politica significa quindi darle la capacità di reagire alla sofferenza sociale collettiva, ricordandosi sempre che i regimi autoritari sono più capaci di sfruttare a proprio vantaggio la cultura del sospetto e della paura. Se l’accelerazione delle trasformazioni economiche e sociali mette in crisi la politica nelle democrazie, sappiamo anche che la globalizzazione non è in grado di occuparsi di chi resta indietro né di dedicarsi alle sorti dell’economia reale, lenta rispetto a quella veloce e mobile del virtuale.

Invece di correre dietro alla globalizzazione, che sarà sempre più veloce di lei, la sinistra democratica non dovrebbe temere di interessarsi alla società lenta, alle classi medie e medio-basse che sono la base del suo consenso, alle diseguaglianze, ai poveri. Al contrario spesso sembra che fare questo sia un peso, un di più o la riserva della società civile. Si tratta di un errore grossolano: dare risposta al malessere sociale è la cosa più urgente per la sinistra. L’invenzione del reddito di cittadinanza ha dimostrato come la sinistra possa farsi scavalcare dal populismo. Il problema è che essa si è autolimitata facendo un lavoro non suo.

È necessario uscire da un impasse e scegliere, il che non significa essere estremisti: significa prendere in mano la sofferenza sociale e provare a risolverla. Davanti a questo non c’è sostenibilità finanziaria che tenga: la sinistra deve smettere di credere che non le resti da fare che inseguire la globalizzazione.

Il progressivismo sociale dell’epoca delle ideologie e della modernità, subordinava il cambiamento alla volontà politica, affermava la supremazia del politico che rivoluziona o riforma. Ora questo non esiste più: la supermodernità globalizzante lascia alla politica solo il ruolo di assistenza (al massimo di regolatrice), perché ai cambiamenti (tecnologici, produttivi, ambientali eccetera) ci penserebbe lei stessa.

Tanto basta per reagire e tornare autorevoli: rifiutare tale prospettiva. In tal senso la globalizzazione non va rincorsa: occorre casomai negoziarci duramente. Per la sinistra democratica è molto più legittimante tale trattativa piuttosto che andare alla ricerca di una legittimità alternativa in territori non suoi, come quella securitaria.

Abbiamo bisogno di sicurezza contro il terrorismo, certo, ma questo vale per tutti. Trattare questioni di sicurezza è anche occuparsi di debito sovrano e risparmio delle persone, di casa e urbanizzazione, di depauperamento e povertà, di violenza diffusa e pace sociale, di immigrazione ed integrazione, insomma: della società in quanto tale.

Nell’ultimo decennio il Pd ha cercato la risposta nel governo, nel governare bene. Si tratta di una risposta seria ma insufficiente. Ciò che serve è un Pd che abbracci le sofferenze sociali (interne ed esterne) con tutto l’impegno possibile, senza lasciarsi intimidire e elaborando soluzione concrete. Se c’è qualcosa o qualcuno da far entrare nel perimetro del partito è proprio questo. Così facendo troverà la sua nuova identità.

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