Poche norme approvate e con il parlamento ridotto al ruolo di passacarte. Il governo procede ad andamento lento rispetto ai precedenti esecutivi, nonostante i proclami. I numeri smentiscono infatti l’autoelogio della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che parlava di «cento azioni in cento giorni».

Secondo un rapporto stilato da Openpolis, che analizza esclusivamente i governi di inizio legislatura, dall’insediamento della leader di Fratelli d’Italia a palazzo Chigi sono entrati in vigore – approvati sia dalla Camera sia dal Senato – in totale solo sette provvedimenti. Con Giuseppe Conte, durante la fase dell’alleanza gialloverde (Conte I), erano stati nove. Un cammino incerto che pagava l’inevitabile dazio alle difficoltà di tenere insieme delle forze politiche molto diverse tra loro, come il Movimento 5 stelle, all’epoca guidato da Luigi Di Maio, e la Lega di Matteo Salvini. Al netto delle fatiche, è risultato comunque più attivo rispetto all’esecutivo in carica.

Da Prodi a Renzi

Non solo. Il governo Prodi II (2006), non proprio l’emblema della coesione, nei primi cento giorni aveva comunque consentito l’entrata in vigore di dieci nuove leggi. Un altro esecutivo, quello presieduto da Enrico Letta, aveva garantito l’approvazione in via definitiva di 13 testi. Sul podio ci sono poi il Berlusconi II (2001) e il Berlusconi IV (2008), rispettivamente con 15 e 18 nuove leggi, mentre il primo Prodi (1996) aveva raggiunto addirittura quota 23.

Uscendo poi dal perimetro dei governi di inizio legislatura, il paragone ribadisce la lentezza dell’esecutivo in carica: il Conte II, al netto delle ratifiche di trattati europei, contava su 16 provvedimenti licenziati dal parlamento. In precedenza l’esperienza a palazzo Chigi di Matteo Renzi era stata caratterizzata dall’iper attivismo dell’allora leader del Partito democratico. Sul tavolo aveva messo subito la misura del bonus degli 80 euro in busta paga, il decreto Poletti, che fissava i capisaldi del Jobs act, e l’avvio dell’iter di riforma costituzionale. Una sequenza di interventi bandiera, in materia economica, che oggi non ci sono stati.

Cdm e decreti a pioggia

Eppure Meloni ha guidato tanti Consigli dei ministri in queste settimane: lo scorso 2 febbraio si è celebrato il Consiglio numero 19, come si legge sul sito. La media è sostenuta: una riunione a palazzo Chigi ogni cinque giorni. Un ritmo più alto rispetto ai predecessori, nonostante un rendimento normativo inferiore. Quasi un paradosso.

Per avere qualche metro di giudizio, Renzi aveva riunito il Consiglio dei ministri in 15 occasioni, Conte 17, nella sua prima esperienza da presidente del Consiglio e 16 nella seconda. Certo, nel corso delle riunioni a palazzo Chigi, il governo Meloni ha licenziato ben 15 decreti legge, molti dei quali nelle ultime settimane. Renzi ne aveva presentati 11, Conte 10 (come Letta) durante l’esperienza gialloverde, 9 in quella giallorossa, pareggiando il numero del Prodi II. Oltre ai dati di Meloni si ritrova solo il Berlusconi del 2001, che si è attestato a quota 25. Insomma, l’attuale governo non fa tantissimo, ma quel poco viene portato avanti limitando gli spazi di azione in parlamento.

Del resto, su un punto l’esecutivo in carica ottiene un primato indiscutibile: tutti i provvedimenti trasformati in legge dello stato sono di iniziativa governativa, con sei conversioni di decreti e la legge di Bilancio. Camera e Senato, dunque, si sono limitati all’esame di testi licenziati dal Consiglio dei ministri apportando piccoli interventi. L’esempio principale è la manovra economica con una dotazione minima concessa ai deputati. «Generalmente oltre l’80 per cento delle leggi approvate è di iniziativa governativa. In questo caso l’esecutivo attualmente in carica si colloca al primo posto (insieme al governo Berlusconi II) con il 100 per cento di leggi approvate di iniziativa governativa», si legge nel documento elaborato da Openpolis, tracciando un parallelo con i predecessori.

Divisioni nascoste

Un approccio che non è passato inosservato a Montecitorio. «C’è stato uno schiacciamento, ancora ulteriore, delle prerogative del parlamento, basti pensare al decreto rave dove c’è stato il ricorso allo strumento della ghigliottina», dice Riccardo Magi, deputato e presidente della componente +Europa alla Camera. Un giudizio impietoso sullo «stato comatoso in cui versa il parlamento, che vanno nella direzione opposta rispetto agli annunci sul recupero della sua centralità».

In questo discorso rientra l’abuso di ricorso alla questione di fiducia. In poco più di tre mesi lo strumento per blindare l’iter dei testi è stato utilizzato già cinque volte da Meloni con una frequenza che si è intensificata a dicembre. In termini assoluti c’è chi ha fatto di peggio, come nel caso del Prodi II (sei in 100 giorni). Ma facendo il rapporto tra leggi entrate in vigore e questioni di fiducia poste, Meloni balza in vetta con il 71,43 per cento delle norme licenziate da Montecitorio e palazzo Madama grazie alla fiducia.

Un trend che rischia di restare alto: nelle prossime settimane potrebbe essere chiesta la fiducia per la conversione del Milleproroghe, ora in esame al Senato. Peraltro una maggioranza politicamente compatta, almeno sulla carta, non dovrebbe avere difficoltà ad approvare leggi di iniziativa parlamentare. La tendenza va invece nella direzione opposta. «Si evita il confronto», osserva Magi, «sulle proposte dei gruppi di maggioranza proprio per non palesare le divergenze che esistono sui vari temi».

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