Il 12 maggio del 2007 Mara Grassi era a Roma. Partita la mattina da Sant’Ilario d’Enza, nel reggiano, si ritrovò a sfilare con il suo circolo di preghiera Familiaris consortium accanto a oltre un milione di persone afferenti a gruppi, parrocchie, movimenti come Comunione e liberazione, Neocatecumenali, Sant’Egidio, così come ai vertici e i simpatizzanti della Casa delle libertà ed esponenti dell’estrema destra. Era lì per quel Family day che costituì probabilmente uno dei fatti politici più importanti di quei mesi e diede una robusta spallata al già traballante governo Prodi. Il potentissimo cardinale vicario Camillo Ruini minacciò ritorsioni contro chi tra i movimenti e i gruppi cattolici si fosse rifiutato di aderire, abile nel mascherare con la battaglia per una maggiore attenzione alle famiglie, il vero bersaglio della mobilitazione: il ddl sulle unioni civili passato alla storia – non agli atti perché non venne mai approvato – sotto l’acronimo Dico. «Per me esisteva un solo tipo di famiglia e quando mio figlio ci confessò la sua omosessualità, reagii malissimo. Per dieci anni non l’ho accettato, arrivando fino a interrompere i rapporti».

Ferita e impossibilitata, per vergogna indotta, a condividere le proprie ansie con quel mondo di cui era pienamente rappresentativa, la famiglia di Mara e Agostino Usai, si rinchiude in sé stessa. «Stavamo tutti male, non solo mio figlio. Poi abbiamo saputo dell’esistenza a Parma di un gruppo di genitori credenti di ragazzi Lgbt, abbiamo incontrato loro e i sacerdoti che li seguivano e si è aperto un mondo. Abbiamo capito che i fondamenti per una piena accoglienza di tutti sono nella Bibbia stessa e per noi è stata una grande liberazione». Il 16 settembre scorso Mara era nuovamente a Roma. Questa volta dal Papa, assieme al marito e un gruppo di persone Lgbt e genitori. «Santità – ha detto pubblicamente – siamo genitori fortunati, Dio ci ha fatto un dono grande e inaspettato».

Nulla di sbagliato

È un sentiero accidentato, irto di spine e zeppo di buche, quello su cui camminano i genitori credenti di figli Lgbt. Più aspro rispetto ai loro omologhi laici. Oltre allo stigma che la società impone su chiunque abbia affettività diverse da quella etero, devono affrontare il senso di irrimediabile peccato, l’esclusione, il dito puntato di una Chiesa che ancora fatica a comprendere e accogliere. Allo stesso tempo, però, il viaggio intrapreso riserva loro gioie impensate, riconciliazioni, rivelazioni, assieme a una vera e propria riscoperta della fede. «Da quando ho preso coscienza della condizione felice di mamma di un gay ho vissuto una doppia conversione, laica e spirituale, il rapporto con la Chiesa è cambiato nel profondo – racconta Anna Battaglia, un’insegnante in pensione di Ragusa –. Anni fa avevamo un sacerdote che faceva da padre spirituale a tutta la mia famiglia, era di casa e ci era stato vicino quando mio marito morì a causa di un incidente. Saputo dell’omosessualità di mio figlio mi disse letteralmente “È la cosa più terribile che potesse capitarti”».

L’episodio fu una scossa per Anna e segnò un punto di non ritorno. «Chiusi con una Chiesa vecchia, non con la fede. L’omosessualità di mio figlio ha sconvolto le mie certezze obbligandomi ad andare più a fondo e a capire che con la Chiesa bisogna fare come con quei genitori che rifiutano la diversa affettività dei figli: aiutarla con pazienza a capire che non solo non è un peccato, ma una straordinaria risorsa». «Ci sentiamo benedetti da Dio – dicono Serenella Lungarini e Salvatore Olmetto, una coppia di Civitavecchia – perché l’omosessualità di nostra figlia ci ha rimesso in discussione, fino a quel punto vivevamo una fede molto superficiale, alla Mulino Bianco, in cui tutto era al suo posto. La prima fase è stata dura, faticavamo a capire e quel prete che in confessionale le disse “Tu non rientri nel progetto di Dio” scatenò in lei, credente, una depressione gravissima».

Per questa banalità del male, unita a un giudizio discriminatorio di tanti sulla ragazza fin da quando, a nove anni, ha compreso senza ancora rivelarlo, di essere lesbica, tutta la famiglia Olmetto ha dovuto passare attraverso percorsi di psicoterapia, periodi di sofferenza, conflitti.

«Poi abbiamo compreso che non c’era nulla di sbagliato in nostra figlia né in noi, siamo entrati in contatto con genitori credenti di figli Lgbt e molto è cambiato attorno a noi, perfino l’atteggiamento della diocesi: è l’unica in Italia ad aver chiesto a una coppia di laici, noi due, di seguire la pastorale famigliare e di occuparci di genitori di figli Lgbt».

Un disagio profondo

Sorti spontaneamente poco più di cinque anni fa, i movimenti dei genitori credenti di persone Lgbt si sono rapidamente moltiplicati e radicati in 14 regioni d’Italia. Lo scorso 14 febbraio hanno dato vita a “3VolteGenitori” (si diventa genitori alla nascita di un figlio; il coming out ce li fa riscoprire e la consapevolezza di aiutare la Chiesa a essere più inclusiva, ci fa diventare genitori per la terza volta), la prima rete nazionale che coordina le varie esperienze. Hanno diverse ispirazioni, posizionamenti, provengono da contesti molto differenti che spaziano dal cattolicesimo più conservatore ai movimenti progressisti. Ma sono tutti accomunati da scopi e mission: aiutarsi, aiutare i propri figli e aiutare la Chiesa.

«Nostro figlio – spiegano i parmigiani Michela Munarini e Corrado Contini, fondatori del gruppo Davide, la prima esperienza di genitori in Italia – ci scrisse una lettera che recitava “La non riconoscibilità di un legame di amore vero è la più grave ingiustizia per una persona: disprezzatela, picchiatela, ma se le togliete anche l’onore del suo amore la priverete della dignità di essere umano e figlio di Dio”. Il giorno dopo, in cattedrale per un convegno, presi la parola: “Stiamo negando Dio ai nostri figli, dobbiamo innanzitutto chiedere perdono”».

Da allora, i due seguono coppie di persone Lgbt nei loro cammini di fede e di avvicinamento all’unione civile e vivono con intensità l’impegno di liberazione civile ed ecclesiale. Anche a causa di una pervasività ancora retriva della Chiesa cattolica nella società, il nostro paese non riesce a fare i conti con i diversi orientamenti affettivi. Al di là delle enormi divisioni emerse anche di recente attorno al ddl Zan, esiste un disagio profondo che permea intimamente la popolazione e che alla fine domina il pensiero, lo rende quasi unico. Molto è cambiato negli ultimi anni da noi e nel mondo, se pensiamo che fino a tre decenni fa l’omosessualità era inserita dall’Oms nella lista delle malattie mentali (è per celebrare la definitiva rimozione avvenuta il 17 maggio del 1990 che lunedì si festeggia la Giornata intenzionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, ndr). Se invece la mente torna a personaggi pubblici che evocano forni o esternano serenamente propri fastidi o disgusti, alle continue aggressioni, ma anche a comici che invitano i “ricchioni” a fasi una risata, colpevolizzandoli di non riuscire a sorridere di infinite sofferenze intime, si comprende quanto ancora siamo indietro.

«In questa storia di negazioni di diritti, la Chiesa cattolica gioca un ruolo di primo piano – dice Maria Rosaria Di Spirito, maestra foggiana in pensione, con frequentazioni pregresse, sue e del marito, in movimenti iper-cattolici come Rinnovamento dello spirito e Neocatecumanali –. Nostro figlio semplicemente per il fatto che non amava il calcio e aveva interessi diversi, è stato bullizzato fin dalle elementari e in seconda media manifestò gravissime forme di autolesionismo con pensieri suicidari. Inizialmente sentimmo la comprensione del nostro ambiente, ma quando, più tardi, mio figlio palesò la sua omosessualità, percepimmo una grande freddezza. La cosa peggiore è che la Chiesa mette i genitori contro i propri figli e tra di loro, è un messaggio di guerra».

L’incaglio continuo della Zan fonda le sue radici anche sulla costante avversione espressa dalla Conferenza episcopale che, fino allo scorso 27 aprile, richiamava la necessità di «riaffermare serenamente la singolarità e l’unicità della famiglia, costituita dall’unione di uomo e donna». Ma se qualcosa proprio nella Chiesa sta cambiando, così come testimoniano anche le tante veglie diocesane organizzate in tutta Italia contro l’omotransfobia in questi giorni, lo si deve anche a questa mite spina nel fianco rappresentata dai credenti Lgbt e dai loro genitori.

«I gruppi di genitori di figli Lgbt credenti – è sicura Beatrice Sarti, imprenditrice bolognese mamma cattolica di due ragazzi uno dei quali gay e tra i fondatori col marito di Famiglie in cammino – hanno questa splendida duplice funzione: con una mano tengono i nostri ragazzi, con l’altra la Chiesa. Stare accanto a nostro figlio e ai tanti ragazzi con cui veniamo in contatto, ci ha condotto a una vera rigenerazione nella fede ma anche nella nostra vita di coppia». «Sono sincera – dice Maria Rosaria Quaranta, tarantina, madre di tre figli due dei quali transgender e membro de L’Ulivo della vita – io e mio marito siamo stati per molto tempo impegnati in parrocchia, ma dopo tante umiliazioni ci siamo allontanati dalla Chiesa. Ciò non significa che sia un capitolo chiuso: la riscoperta di una fede più autentica che sto sperimentando mi spinge a lottare nella speranza di tornarci».

«Senza dubbio – spiega don Dino Daloia parroco e responsabile della Pastorale Lgbt della diocesi di San Severo, Foggia – i genitori più integrati nell’ambiente ecclesiale e più intrisi di cultura dottrinale cattolica, fanno più fatica a mettersi in viaggio verso nuove visioni delle relazioni amorose. Conosco storie di grande rifiuto, violenza e dolore, non solo dei figli ma dei genitori stessi».

Cambiare la politica

Le difficoltà, però, attendono anche quei genitori apparentemente più aperti. «Per anni – dice Stefano Toppi membro, assieme alla moglie Dea Santonico, della comunità di San Paolo a Roma, fondata da don Franzoni, un ex abate benedettino ridotto allo stato laicale per le sue note posizioni progressiste – ho partecipato e animato incontri sui cristiani Lgbt nella mia chiesa e sempre ostentato piena comprensione. Ma quando si è trattato di affrontare l’omosessualità di mio figlio, ho sentito l’esigenza di farmi seguire da uno psicoterapeuta: per aiutare il mio ragazzo, dovevo prima aiutare me stesso». «Nessuno di noi ha mai pensato al peccato – gli fa eco Dea – ma non è stato un cammino facile. Nelle ansie rientrano anche le preoccupazioni per i fatti di cronaca, le discriminazioni». Dea e Stefano sono fondatori del gruppo Parola e parole, l’unico in Italia a cui partecipano sia i genitori sia le persone Lgbt «La missione di noi genitori, oltre che ecclesiale, ha un grande valore politico, perché in Italia, tutto ciò che mira a cambiare la Chiesa ha una ricaduta su tutti».

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