«Mettiamo le cose in chiaro. Io al modello Ulivo preferisco il modello Ursula. A Letta, che non ho sentito in questi giorni, dico che dobbiamo puntare su Draghi anche oltre il 2023, per continuare a fare le riforme. Ma per fare questo dobbiamo costruire un fronte larghissimo di persone e forze politiche di cultura popolare, liberale, socialista e verde». A Carlo Calenda sono fischiate le orecchie in questi ultimi due giorni. Il “vaffa” di Enrico Letta a Matteo Renzi, pronunciato giovedì dalla radio di partito in risposta ai messaggi dei militanti che lo incitavano a chiudere i rapporti con Italia viva, ha un non detto. E il non detto, almeno non detto apertamente, è che Letta non intende rompere con le “forze del centro”, indispensabili al suo “campo largo” e alla sua idea di alleanza. Ma prova a isolare Italia viva, l’alleato inaffidabile. Spiega un dirigente “di prima fascia”: «Quanto vale ormai la parola di Renzi? Primo, con lui ci si muove sempre a luce spenta, e nella bocciatura della legge Zan è stato ancor più grave visto che il voto si è consumato contro i diritti delle persone più deboli; secondo, ormai nella nostra comunità è diffuso il senso di una fiducia tradita».

Ieri Letta è stato impegnato tutto il pomeriggio con i suoi blasonatissimi ospiti del Global progress summit 2021, ha dialogato con il cancelliere tedesco Scholz, il premier spagnolo Sanchez e la prima ministra neozelandese Jacinda Ardern. Nella due giorni di incontri dei progressisti di mezzo mondo, in parallelo al G20, il segretario Pd ha fatto incontrare i democratici americani con i socialisti europei. Lì, viene fatto notare en passant, Renzi non è stato neanche invitato.

Anche con la benedizione dei partiti fratelli di tutto il mondo (occidentale) progressista, Letta si prepara alla corsa per le prossime elezioni politiche. Quanto al suo nuovo Ulivo, per il centro ha in mente un’interlocuzione privilegiata con Carlo Calenda e la sua Azione.

Calenda sì, Renzi no

A sua volta Calenda, dopo il successo al Campidoglio (sfiorato il 20 per cento, primo partito a Roma, cinque eletti) lavora a rafforzare il suo partito partendo dai suoi 800 amministratori e 23 sindaci. Un tesoretto utile per puntare al 10 per cento nazionale. Le differenze delle formule politiche, poi, potrebbero non essere così irriducibili: il modello Ulivo è un’alleanza di centrosinistra che il segretario Pd vorrebbe maritare ai Cinque stelle di Giuseppe Conte; il modello Ursula (von der Leyen) è quello con cui governa la Commissione europea, ovvero Popolari, Socialisti e democratici, liberali. Insomma, Calenda punta a dialogare con Forza italia, staccandola dalle destre nazionaliste. C’è anche un altra sfumatura: nel luglio del 2019 la presidente fu votata anche dai Cinque stelle. Dettaglio non da poco, perché se ieri Calenda invitava il Pd semplicemente a liberarsi di Conte, ora spiega che per dialogarci «dipende da cosa diventano, oggi sono una maionese impazzita, diciamo che sono un po’ inaffidabili».

Insomma Pd e Azione sono in rotta di avvicinamento. Si capisce perché Letta, durante la campagna elettorale delle amministrative, non ha attaccato mai l’ex ministro, fatto che faceva impazzire i romani che avevano in lui un avversario implacabile contro Roberto Gualtieri. Al Pd è stata accolta con favore la cordiale ma dura richiesta di chiarimenti pubblica a Renzi da parte di Calenda: «Ho stima di Renzi, ma quello che fa adesso, da legarsi all’Arabia Saudita all’allearsi con Micciché, non lo capisco». Più che una vera richiesta di chiarimento, suona un po’ come una dissociazione. Renzi si sarebbe offerto a Calenda come “padre nobile” del nuovo centro riformista, ricevendo un cortese no grazie.

Gli ex renziani dissentono

Per Letta l’alleanza non è «una somma di sigle» ma qualcosa di più popolare, modello Agorà. Ma la cosa più importante, come spiega un altro dirigente Pd, «chi guarda e commenta questo processo dovrebbe uscire dall’approssimazione secondo cui ‘o con Renzi o niente’. Il mondo moderato e liberale non si esaurisce certo in Italia Viva».

È un messaggio all’interno del Pd. Perché a neanche dieci giorni dal successo delle amministrative, la pax democratica scoppiata improvvisamente intorno al segretario Pd è già finita. La sconfitta pesante sulla legge Zan e poi la rottura con Renzi hanno provocato una specie di movimento sussultorio nei gruppi parlamentari. Alla fine a parlare è il molto riservato ministro della Difesa Lorenzo Guerini, capocorrente di Base Riformista (insieme a Luca Lotti che però si trova nella curiosa condizione di dirigere una corrente pur essendosi autosospeso dal partito). Una corrente che pesa per più del 20 per cento nel partito ma che pesa il doppio nei gruppi parlamentari. La scelta di Letta non lo ha convinto: «Penso che il campo largo di cui ha parlato il segretario del mio partito sia un dovere che dobbiamo portare avanti con grande impegno», dice a La7, «Le polemiche di questi giorni hanno un loro significato ma dobbiamo guardare avanti». E avanti c’è la ricerca di una maggioranza sul nuovo presidente della Repubblica: «Il metodo è costruire il più ampio consenso possibile sulla scelta di questa figura istituzionalmente rilevantissima». Gli fanno eco i suoi: Il sindaco Giorgio Gori: «Far discendere il perimetro del centrosinistra e le future alleanze dal voto sul ddl Zan a me pare un errore. Per dispetto e per far dispetto, si corre il rischio di farsi male da soli». Andrea Marcucci, il grande oppositore di Letta al senato: «Bisogna essere coerenti. Se si dice campo largo, poi il campo non può restringersi improvvisamente. Per la sfida del Quirinale, e per vincere le elezioni, serve il consenso più alto possibile». Ma a non essere convinto è anche un senatore di lungo corso, e di tutt’altra cultura, come Luigi Zanda, che al Foglio dice che «non è dall’esito di uno scrutinio segreto certamente grave sul ddl Zan che il Pd deve elaborare la sua politica delle alleanze. Fare questa equivalenza sarebbe un errore».

«È stato un chiarimento»

La risposta di Letta, indiretta ma chiara, arriva a stretto giro, alla presentazione dell’anno accademico della Scuola delle politiche. Il campo largo non è finito, giura, «Io lavoro sempre in una logica di un centrosinistra inclusivo, vincente», d’altro canto non si può fare come se nulla fosse dopo il tiro mancino sulla Zan che «è semplicemente stato un momento di chiarimento importante». Rincara il suo vice Peppe Provenzano: «Renzi ha fatto tutto da solo. La scelta di campo l’ha fatta lui, solo che è un altro campo rispetto al centrosinistra. E non è solo il voltafaccia su Zan dall’Arabia Saudita, in Sicilia è andato con Forza Italia. Altro conto è la presidenza della Repubblica, sulla quale ovviamente si discuterà con tutti».

«No all’antirenzismo»

Il Pd dà per acquisito che il core business dei franchi tiratori della legge Zan sia in Italia viva e considera gli attacchi dei senatori renziani a Letta subito dopo il voto la “pistola fumante” del doppio gioco. Ma spazzato via Renzi, non è detto che i problemi siano risolti. Lo si capisce dalle parole di Marco Bentivogli, altro riformista, ex sindacalista Cisl e fondatore di Base Italia: «Non è utile dedicare energie a scavare solchi. Unire, integrare le forze, presto sarà una necessità. Non mi piace questo clima. Io non sono mai stato renziano e non mi iscriverò a Italia viva, ma non mi piace l’antirenzismo e considero puerile chi aggrega e fa identità sull' dell’antirenzismo»..

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