«Con me ci saranno tanti italiani convinti che difendere i confini e la sicurezza del Paese sia un dovere». Le parole che Matteo Salvini ha scritto giorni fa su Facebook - in vista del processo a suo carico per la vicenda della nave Gregoretti - sintetizzano la linea difensiva dell’ex ministro, sia sul piano mediatico che su quello del diritto.

Poiché il primo in tribunale non conta, serve verificare la tenuta degli argomenti che l’ex titolare del Viminale porterà a propria difesa nel giudizio.

I fatti

Va ricordato che, nell’estate 2019, la nave Gregoretti restò al largo di Augusta per diversi giorni, in attesa dell’autorizzazione allo sbarco e che Salvini è accusato del reato di sequestro di persona aggravato per «omessa indicazione del luogo sicuro», che determinò «una situazione di costrizione a bordo con limitazione della libertà di movimento dei migranti».

Va pure premesso che Salvini non si avvalse del potere – di vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nelle acque italiane – di cui al cosiddetto decreto Sicurezza bis, né avrebbe potuto farlo. La Gregoretti è una nave della Guardia costiera italiana, quindi una nave militare, nei cui riguardi tale normativa non può applicarsi.

(Foto Mauro Scrobogna /LaPresse)

La versione di Salvini

Nella memoria difensiva, Salvini giustifica il tempo di attesa dell’autorizzazione all’entrata in porto, innanzitutto, affermando che la normativa internazionale non prevede l’obbligo di disporre lo sbarco «immediato» dei migranti salvati in mare, né esclude che la stessa nave di soccorso possa essere considerata un “posto sicuro”. Pertanto, siccome sulla Gregoretti «furono assicurati beni di prima necessità e cure», gli obblighi previsti dalle regole internazionali sarebbero comunque stati assolti.

Al riguardo serve qualche chiarimento, perché le cose non stanno come l’ex ministro le rappresenta. Ai sensi della Convenzione internazionale di Amburgo del 1979 sulla ricerca e il soccorso marittimi (Convenzione Sar), nonché delle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Risoluzione Msc 167-78, 2004) della Organizzazione marittima internazionale (Imo), soccorso e assistenza a bordo non costituiscono completo adempimento degli obblighi di salvataggio.

Quest’ultimo si conclude solo con lo sbarco a terra, in un “luogo sicuro” (Pos: Place of safety), ove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non sia più minacciata; le loro necessità primarie (cibo, alloggio, cure mediche) vengano soddisfatte; sia organizzato il loro trasporto nella destinazione vicina o finale.

Pure la nave soccorritrice può costituire “luogo sicuro”, ma solo in via provvisoria: lo Stato costiero deve adoperarsi per sollevare quanto prima il comandante dalla gestione dei naufraghi. E, come chiarito dai giudici nel caso Cap Anamur (2009), ciò significa non solo provvedere a esigenze di tipo materiale, ma “garantire a questi ultimi il diritto universalmente riconosciuto di essere condotti sulla terraferma”.

Secondo l’ex vertice del Viminale, i tempi dello sbarco sarebbero stati giustificati dal protrarsi delle trattative per la redistribuzione con altri Stati dell’Unione europea (trattative svolte d’intesa con altri ministri e la presidenza del Consiglio: secondo Salvini ciò escluderebbe l’abuso da parte sua della pubblica funzione). E tali trattative costituirebbero una fase necessaria del procedimento di accoglienza, da effettuare prima dello sbarco, per poi indirizzare i migranti alla propria destinazione.

Va osservato che questa impostazione potrebbe comportare tempi di permanenza in mare anche molto lunghi, mentre il criterio guida delle regole in tema di soccorso è opposto: dare un celere sollievo a persone provate da una condizione di pericolo.

Al riguardo, peraltro, si era già espresso il Tribunale dei ministri nella richiesta di autorizzazione a procedere nei riguardi di Salvini: il coinvolgimento di altri paesi nell’accoglienza non può ridurre l’obbligo di «garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in un luogo sicuro» e può essere perseguita in modo alternativo e rispettoso degli obblighi posti dal «diritto del mare».

(Foto Mauro Scrobogna /LaPresse)

La competenza

L’ex ministro dell’Interno rigetta le accuse pure dicendo che la competenza ad autorizzare lo sbarco sarebbe spettata non a lui, bensì al ministro delle Infrastrutture. Ma le regole al riguardo sono chiare. Le Linee guida Imo prescrivono agli Stati di dotarsi di piani operativi, al fine di minimizzare i tempi ed evitare ritardi nelle operazioni di sbarco.

In Italia, il piano operativo (direttiva Sop 009/15 del Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera) prevede che, quando il soccorso sia effettuato da navi della Guardia costiera italiana, la richiesta di assegnazione del Pos vada inoltrata al dipartimento per le Libertà civili e per l’Immigrazione, quindi al Viminale. Da ciò discende la responsabilità del titolare del dicastero.

Ancora, secondo Salvini non vi fu alcuna illecita compressione della libertà personale dei migranti, con il loro trattenimento a bordo, in quanto, “anche ove fossero stati sbarcati subito dopo l’approdo (…), non avrebbero potuto esercitare il diritto di circolare liberamente, prima della ultimazione delle procedure amministrative”.

La forzatura è palese: le procedure che si svolgono a terra, con il relativo trattenimento, hanno il preciso fine di verificare lo status dei migranti. A bordo di una nave ciò non è possibile (caso Hirsi Jamaa), quindi il trattenimento non ha motivazione.

Le tempistiche

L’ex ministro sostiene pure che i tempi di attesa per lo sbarco siano stati funzionali alla tutela di ordine pubblico e sicurezza pubblica perché c’era il sospetto della presenza a bordo di scafisti, poi individuati «in seguito a successive attività di polizia giudiziaria svolte presso l’hotspot di Pozzallo». Ma l’interesse all’ordine e alla sicurezza va contemperato con i diritti fondamentali degli individui: il ministro dell’Interno poteva autorizzare lo sbarco, essendovi vite umane in pericolo, e poi esercitare sulla terraferma i suoi poteri di pubblica sicurezza (l. n. 121/1981).

Nella memoria difensiva egli fa riferimento, più o meno esplicito, anche alla circostanza che i migranti si siano messi quasi volontariamente nella situazione di pericolo in mare, avendo chiesto ai trafficanti di imbarcarsi per raggiungere l’Italia in modo illegale, come se da ciò potesse derivare una minore tutela per gli stessi.

Tuttavia, ai sensi delle convenzioni internazionali l’assistenza va fornita a qualsiasi persona in difficoltà, a prescindere da altre circostanze. Salvini afferma pure che il caso in questione rientrerebbe non tra i «reali incidenti di navigazione», ma tra i «tentativi di ingresso irregolare sul territorio nazionale ed europeo»: l’ex ministro ricorre così alla sua usuale «presunzione di colpevolezza» di migranti e navi di soccorso, sulla quale peraltro ha basato il secondo decreto Sicurezza.

(Foto Mauro Scrobogna /LaPresse)

Piani diversi

«Mi sembra surreale dover subire un processo penale esclusivamente per aver adempiuto il mio dovere di Ministro dell’Interno, in linea con il programma di Governo che godeva della fiducia del Parlamento e prima ancora dei cittadini», dice Salvini nelle conclusioni della memoria, e fa pure un cenno alla vicenda Palamara. È palese il tentativo di confondere piani diversi, ma di certo ciò non confonderà le valutazioni in punto di diritto da parte del tribunale.

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