Alla fine il codice etico della Rai non c’entrava nulla con la cacciata di Roberto Saviano. La certezza è arrivata grazie a un’intervista concessa dall’amministratore delegato di viale Mazzini, Roberto Sergio, al Giornale. Il manager voluto da Giorgia Meloni per “melonizzare” il servizio pubblico ha spiegato di non aver mai citato il codice etico nei suoi interventi. Mentre Marcello Foa – in evidente contrasto con i principi valoriali del servizio pubblico – merita un posto perché gode della stima personale dell’ad.

In realtà, nelle risposte di Sergio ce n’è per tutti. Anzitutto per i consiglieri d’amministrazione che hanno sollevato perplessità sulle prime scelte dei nuovi vertici di viale Mazzini, in particolare Francesca Bria, area Pd: «Difficile immaginare che questo tipo di polemiche (quelle dei giornali stranieri, ndr) siano state sostenute e magari indotte da chi dovrebbe difendere l’immagine dell’azienda. Non capisco che vantaggio possa aver avuto chi lo ha fatto».

Di tutt’altro avviso è Bria: «I consiglieri Rai dovrebbero difendere l’indipendenza e l’autonomia del servizio pubblico, il giornalismo indipendente e d’inchiesta, un’informazione autorevole e plurale e la capacità della Rai di giocare un ruolo nella definizione del servizio pubblico del futuri, capace di creare cultura e contenuti rilevanti per i cittadini italiani».

Insomma, «le polemiche stanno a zero». Ma intanto Sergio ha di fatto ignorato – almeno per il momento – la lettera che Bria e Riccardo Laganà, consigliere in quota dipendenti, gli hanno inviato. Nessuna risposta sul caso Saviano e quello che riguarda Foa, divulgatore di fake news ed ex presidente ricordato soprattutto per essere quasi caduto nella “trappola” di un falso Giovanni Tria (ex ministro dell’Economia del governo del governo Conte I ndr), in odore di ottenere un programma quotidiano su Radio 1.

Parole che non risolvono

«Si è aperto un incredibile dibattito», ha detto Sergio, sul codice che sarebbe stato all’origine della cancellazione di Insider. Infatti si era detto che Saviano fosse incompatibile con il servizio pubblico a causa dell’espressione «ministro della Mala Vita» riferita a Matteo Salvini (peraltro, si tratta di una citazione di Gaetano Salvemini).

E invece no. Anche se continua a non essere chiaro quale sia davvero il problema con il programma dello scrittore. Lo stesso ad ha ammesso che «non si tratta di un problema legato al prodotto». La ragione, quindi, andrebbe cercata altrove: «Ho profondo rispetto per le istituzioni e ancor di più delle donne e lo dico a maggior ragione come padre e come marito. Questo mi ha portato a fare le scelte che ho comunicato».

Resta poi la questione economica che si è venuta a creare con il cambio in corsa: Saviano era già nei palinsesti, il programma è stato acquistato a spese dei contribuenti e ora rischia di rimanere in un cassetto di viale Mazzini.

Non è molto chiara neanche l’argomentazione usata da Sergio, che mette sullo stesso piano la cancellazione dei programmi di Filippo Facci e di Saviano. L’editorialista di Libero è stato attaccato per parole scritte quando il caso del figlio di Ignazio La Russa, accusa di violenza sessuale da una ragazza, era appena scoppiato.

Saviano ha utilizzato l’espressione salveminiana a più riprese, tanto da essere già finito a processo per una querela di Salvini. Entrambe le epurazioni, dice Sergio, nascono da una questione di «rispetto». Nel dubbio, però, l’ad è sicurissimo di non avere bisogno del supplemento di riflessione sul caso chiesto dalla presidente Marinella Soldi, che da parte sua preferisce non commentare l’uscita.

Anzi, «ho trovato singolare che abbia espresso il suo dissenso un’ora e mezza prima di un importante incontro istituzionale», dice Sergio. Anche per quanto riguarda Foa, rimane il dubbio su come un giornalista che in passato ha addirittura espresso «disgusto» per Sergio Mattarella, sia considerato presentabile.

«In questi anni ha partecipato come opinionista in tante trasmissioni Rai e di altri broadcaster ed è una persona che stimo», la risposta di Sergio. Della serie: garantisco io. Un atteggiamento non nuovo per l’amministratore, che ha deciso di lasciare al suo braccio destro, il direttore generale Giampaolo Rossi, la gestione delle trattative politiche con i partiti per curare le sue partite personali in Rai, in primis in Radiorai.

Il dominus di viale Mazzini continua per la sua strada: «Le nostre iniziative non possono accontentare tutti, l’unica certezza è che mai come questa volta siamo un’azienda equilibrata e pluralista». Una definizione che non torna del tutto alla Commissione europea, che ha denunciato giovedì il rischio di ingerenze politiche in Rai.

«La Commissione è consapevole dei rischi di interferenza politica che incidono sull’indipendenza dei media del servizio pubblico in Italia» ha scritto il commissario per il Mercato unico, Thierry Breton, in risposta a un’interrogazione.

Un punto di vista che condivide anche Bria: «Sono preoccupata per la direzione in cui sta andando l’azienda e felice del fatto che la Commissione europea sia determinata a proseguire sulla strada indicata dallo European Media Freedom Act, che sarebbe una svolta storica per la Rai».

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