Il Pd si rivolta per le affermazioni contro i partigiani da parte della seconda carica dello Stato? Per Giorgia Meloni le carnevalate fascistissime di Ignazio La Russa cominciano ad essere una fastidiosa seccatura, sì, ma si guarda bene dal farlo trasparire: per non dare soddisfazione, e perché sa che in fin dei conti il presidente del senato ha alzato i toni sull’azione dei resistenti a via Rasella – «fu colpita una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS», ipse dixit – per generosità verso di lei, nel tentativo di giustificare la sua altrettanto carnascialesca affermazione, sua della premier, e cioè che i martiri antifascisti delle Fosse Ardeatine, comunisti ed ebrei, furono «massacrati solo perché italiani». È finita con una toppa peggiore del buco.

L’opposizione in parlamento si sbraccia per chiedere al governo di riferire sui ritardi del Pnrr? La presidente del consiglio se ne infischia. È convinta, con qualche ragione, che da quella parte dell’emiciclo non le arriverà alcun inciampo concreto, per quanto si mettano in scena grandi agitazioni.

A preoccupare Giorgia Meloni c’è solo il capo dello Stato. Per ragioni oggettive, non soggettive: perché soggettivamente il presidente, con il suo modo cordiale, misurato e umano, viene descritto come attentissimo ai toni e a non dare l’idea di volerla mettere sotto tutela. Né direttamente né indirettamente. Oltre agli incontri fra i due, l’ultimo lo scorso venerdì, e alle telefonate frequenti, c’è anche una pattuglia di ufficiali di collegamento fra Quirinale e Palazzo Chigi a cui quotidianamente vengono affidati messaggi riservati, scambi di impressioni. Una pattuglia guidata da un tridente: Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e autorità delegata per la sicurezza; Guido Crosetto, ministro della Difesa e amico di lunga pezza del consigliere Gianfranco Astori; e Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia già leghista draghiano nella scorsa legislatura, e uomo di fiducia del Colle grazie a un consolidato rapporto con il consigliere di Stato Daniele Cabras.

L’unica opposizione

Per questo atteggiamento discreto, venerdì pomeriggio è stato Palazzo Chigi a dare la notizia dell’incontro fra i due presidenti. E a sottolineare che il protrarsi della colazione e della «lunga conversazione in un clima cordiale e collaborativo» ha costretto la premier, ahilei, a non andare a Udine, per un appuntamento da tempo in agenda, la chiusura della campagna delle regionali del Friuli-Venezia Giulia a sostegno del leghista Massimiliano Fedriga, con Matteo Salvini e Antonio Tajani. Si è collegata. Il ritardo provvidenziale le ha provvidenzialmente evitato di dover stringere la mano a Marzio Giau, candidato imbarazzante di cui circolano foto davanti a manifesti delle SS. Mancava solo Giau nel giorno delle straparlate di La Russa; già in precedenti occasioni dal Colle erano stati irradiati segnali discreti ma chiari a proposito dell’opportunità di una maggiore continenza, per uno che non è più un leader di partito ma la seconda carica dello Stato.

Diciamo subito: se a una «fonte del Colle» si chiede con semplicismo se il presidente di fatto «è il capo dell’opposizione» o peggio «l’unica vera opposizione al governo», la conversazione rischia di chiudersi senza cortesie. Non è «assolutamente» questa la «postura» dell’istituzione più alta nei confronti del governo, viene spiegato, non è questa l’idea di coabitazione di Mattarella né la sua doverosa interpretazione del ruolo di «garante della Costituzione». Il presidente non è un “interventista” come i suoi predecessori. Per esempio: è per dare una mano al paese, ma anche al governo, che a novembre ha alzato il telefono e parlato con Emmanuel Macron per ricucire lo sgarbo della premier del giorno prima (una nota Palazzo Chigi dava per fatto lo sbarco a Marsiglia della nave Ocean Viking, per l’Eliseo «un comportamento inaccettabile» dell’Italia).

In questi mesi il senso delle esternazioni e delle azioni del presidente è stato inequivocabile. Da Cutro, una presenza silenziosa e composta davanti alle bare dei naufraghi dopo le parole del ministro Matteo Piantedosi contro i profughi; alle Fosse Ardeatine mentre la premier forniva la sua particolare versione storica sui 335 uccisi; alla presenza a Sanremo per i 75 anni della Costituzione; fino a Firenze, all’esortazione a tutti di «mettersi alla stanga a partire dall’attuazione del Pnrr» mentre il governo copriva le sue falle prendendosela con il predecessore Mario Draghi. Fino all’ultima dichiarazione, proprio venerdì quando al Quirinale attribuiva le onorificenze dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, l’elogio del «senso della solidarietà», «il senso del dovere» interpretato come «coscienza al dovere» in un paese in cui prevale «solidarietà, apertura verso gli altri, altruismo». Mentre il governo cerca di ripristinare i decreti Salvini, quelli su cui proprio il Quirinale all’epoca della promulgazione aveva corretto segnalato «rilevanti perplessità».

Eppure, viene giurato, nessun controcanto al governo. Quella del Colle è una pedagogia civile. E se questa pedagogia civile sbatte contro il profilo ideologico del governo delle destre, succede perché è la Costituzione a fare da timone al Colle, cosa che non si può dire per l’azione di governo. Con un po’ di malizia si può aggiungere una considerazione, assolutamente non autorizzata e neanche assecondata: che l’atteggiamento collaborativo del presidente non concede, e non concederà, nessun alibi al governo in caso di futuri, prevedibili, disastri.

Pd, quelli che «troppo poco»

Nelle diverse parrocchie del Pd, e cioè del principale partito dell’opposizione, i giudizi sull’operato di Mattarella sono diversi, sfumature che vanno dall’«ineccepibile» al «troppo poco incisivo».

Lo scorso 24 febbraio, quando per la prima volta ha firmato «con riserva» il decreto Milleproroghe, nel Pd di liturgia di sinistra qualcuno ha applaudito apertamente, ma poi riservatamente ha osservato che era ora, e che il presidente non avrebbe dovuto firmare altri provvedimenti. A partire dal primo atto dell’esecutivo Meloni, quel decreto Rave che conteneva norme confuse, che infatti sono state poi cambiate.

Ma se fin dal primo atto del governo il presidente si fosse messo per traverso, quale china avrebbero preso i rapporti fra Colle e Chigi, sin dall’inizio della legislatura? In una legislatura per giunta che ha tutte le carte per durare, e con una maggioranza che ha tutte le carte per fare persino il bis?

Va detta un’altra cosa: la nuova segretaria verso Mattarella ha una vera devozione. Quanto ai suoi, nel Pd la regola con il Colle è «nihil nisi bonum», non si dica niente che non sia il bene. Regola aurea, non scritta ma scolpita nel dna del partito. Regola che comanda non di parlare solo bene del Colle, ma soprattutto, in caso di opinione diversa, di non parlare affatto.

Così nel novennato di Giorgio Napolitano, nel crepuscolo del governo Berlusconi e durante il governo Monti, quando la traiettoria del Quirinale andava in una direzione – la stabilità della legislatura – e gli interessi del Pd di Pier Luigi Bersani in un altra – meglio votare e capitalizzare subito il consenso – i maldipancia verso le scelte del presidente della Repubblica erano tanti – tantissimi - ma non si trovava un solo deputato, un solo senatore, né un dirigente nazionale e neanche locale disponibile a esprimerli in chiaro.

Bersani, per dire, non si lasciò scappare una sola parola, mai. Neanche nei «giorni bugiardi» – dal titolo di un libro-diario di Stefano Di Traglia e Chiara Geloni, all’epoca il portavoce del leader e la direttrice della tvweb del Pd – , quelli della “non vittoria” del 2013, quando fu il presidente della Repubblica a decidere di non mandare il segretario del Pd alle camere a tentare di prendersi una maggioranza in parlamento, che sulla carta non c’era ma avrebbe potuto materializzarsi fra gli scranni. Neanche dopo i giorni dei 101 che bocciarono Romano Prodi al Colle, e disarcionarono definitivamente Bersani dalla guida del partito.

Colle esemplare

A parlare in chiaro sono dunque solo quelli che apprezzano il profilo che sta tenendo il presidente. Come il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex deputato, che è stato nel gruppo stretto dei grandi elettori che nel gennaio 2022, alle elezioni per il rinnovo del Colle, da subito iniziarono a votare Mattarella e, una chiama dopo l’altra, convinsero quasi tutto il parlamento a fare altrettanto.

Nella scelta c’era l’idea di far durare la legislatura. Ma anche un pensiero più lungo: era preferibile, anzi augurabile, mantenere al Colle un costituzionalista roccioso, in previsione della imminente vittoria di una destra senza radici nell’arco costituzionale (le forze politiche che votarono la Carta nel ‘47). Secondo Ceccanti «Mattarella non fa nessuna forzatura, e sta svolgendo il suo ruolo nel modo più esemplare. E tutti, soprattutto nella maggioranza ma anche nell’opposizione, dovrebbero prenderlo più sul serio. Ad esempio la promulgazione con riserva di un decreto dovrebbe interrogare una maggioranza che ha una prospettiva lunga di governo. Perché insistere sui voti di fiducia, i decreti e il monocameralismo di fatto quando la maggioranza è così ampia?».

Potrebbe fare di più?

Si può obiettare che il parere di Ceccanti è quello di un grande elettore del presidente, che è anche fondatore del Pd e persino autorevole esponente della sua stessa cultura del cattolicesimo democratico.

Eppure non cambia la sostanza ad ascoltare un costituzionalista come Massimo Villone, uno che in passato non ha risparmiato critiche a Napolitano: «So che c’è chi lo vuole tirare per la giacca», ragiona Villobe, «ma Mattarella non è il genere di presidente che si lascia tirare per la giacca. Quello che pensa lo dice, anzi lo ha già detto, in forma di esternazione, di moral suasion. E con chiarezza.

Per esempio sul ddl Calderoli, cioè sull’autonomia, ha usato parole come coesione, eguaglianza e unità. Insomma, su questo tema, il governo non può dire di non sapere come la pensa Mattarella». Poteva non firmare il provvedimento? «Intanto il ddl Calderoli è una legge generale sul procedimento per dare l’autonomia, che sarà poi attribuita con successive leggi che approveranno la maggiore autonomia sulla base di intese con singole regioni. Di queste leggi dovrà valutarsi la costituzionalità.

Oggi il punto più debole del ddl Calderoli è la marginalizzazione del parlamento. Ma è difficile vedere un’insanabile manifesta incostituzionalità in un disegno di legge al momento della presentazione. Bisognerà vedere cosa il parlamento approva, e se nella specie decide di automarginalizzarsi».

Insomma, il conflitto è solo rimandato? «Valutando dal profilo del Quirinale di questi mesi viene da dire che, di fronte alle forzature del governo, il capo dello Stato stia cercando di evitare situazioni di conflitto conclamato». Una cautela che potrebbe avere a che vedere anche con l’annuncio di una riforma costituzionale in senso presidenzialista, che oggettivamente metterebbe in dubbio la sua permanenza? «Non credo affatto che sia turbato da questa prospettiva», è la risposta.

«Le disinvolture costituzionali di questo governo sono molte, compiute forse per inesperienza, forse per incompetenza, rare volte per necessità», spiega il costituzionalista Gaetano Azzariti, «In questa situazione di stress costituzionale alcuni classici ritornano.

Da tempo per esempio si parla di abuso della decretazione di urgenza, e anche i governi precedenti non si sono distinti per continenza, ma in questa prima fase di governo si registra un picco: una stagione di eccessi degli eccessi e di forzature ulteriori. E in questa stagione il presidente Mattarella cerca di contenere gli eccessi con interventi misurati». Potrebbe fare di più? «Potrebbe, ma quel che fa è necessario e non dovrebbe rimanere, come spesso avviene, inascoltato».

È in fin dei conti è anche il parere Paolo Armaroli, già deputato di An e docente di Diritto pubblico comparato a Genova, dove ha insegnato anche Diritto parlamentare. «Mattarella, che è un costituzionalista, esercita le sue funzioni oltre a quelle attribuite dalla Costituzione come moral suasion, cosa che conta molto visto che ogni volta che va in qualsiasi posto, che sia la Scala o altrove, riceve applausi a scena aperta.

La sua rielezione è stata accolta da applausi da stadio. Vuol dire che gode di vasta stima e questo conta, anche per il governo». E se i rapporti iniziali con la premier «non sono stati idilliaci, soprattutto da parte di Meloni perché è stata l’unico leader di partito che ha detto di no alla rielezione di Mattarella, anche se per ragioni forse procedurali più che di sostanza.

Ma mi pare di capire che i rapporti oggi siano molto buoni. Per la formazione del governo la presidente del consiglio ha usato come “alibi” per evitare alcuni ministri spinti dagli alleati». Insomma, nessun problema di coabitazione? «Ma no, anzi Mattarella fa molto bene, interviene per appianare i malumori con l’Europa, ma ad adiuvandum, non per schiaffeggiare il governo. Mattarella non è Cossiga né Gronchi, resterà ad adiuvandum, sempre».

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