Rimane freddo, dice molto e altrettanto omette l’ormai ex magistrato Luca Palamara. Alle 13 di ieri il Consiglio superiore della magistratura lo ha condannato alla pena massima per un illecito deontologico: radiazione dalla magistratura. Alle 16 lui ha preso il microfono e parlato a una stanza vuota a causa del Covid, in un luogo che altrimenti sarebbe stato simbolico per storia e cultura opposta alla sua: la sede del Partito radicale, in via di Torre Argentina a Roma. Aveva rinunciato a rendere dichiarazioni spontanee in aula prima della sentenza, ha scelto di parlare in sede politica e ha lasciato intendere che la sua battaglia non è finita. «So di avere pagato io per tutti», è la sintesi di Palamara, che dice in prima persona ciò che non ha potuto dimostrare nel processo, perché la lista dei 133 testimoni per tentare di provare che il sistema correntizio di condizionamento delle nomine era ampio e tentacolare non è stata accolta. «Sono stato individuato come colui che ricorreva alla pratica degli accordi. Ma si chiamano accordi perché si fanno in più d’uno e io li facevo con i rappresentanti delle correnti». E ancora: «Il sistema delle correnti non l’ho inventato io, domina la magistratura da 40 anni e penalizza chi non vi aderisce, anche sul fronte delle nomine».

Una carriera per una cena

I giudici disciplinari hanno accolto la tesi dell’accusa: durante il dopocena all’Hotel Champagne, insieme a cinque togati del Csm e ai deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, Palamara ha tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei colleghi e ha tentato di condizionare il Csm, pilotando l’elezione del procuratore capo di Roma sulla base di interessi estranei a quelli del terzo potere dello stato. Anche questo Palamara lo contesta, nonostante il procedimento sia ormai concluso: «Ventitré anni di carriera ispirati ai principi di autonomia e indipendenza sono stati messi in discussone per una cena. Si può discutere l’opportunità di quell’evento, ma io non ho mai fatto accordi con un parlamentare, affinchè qualcuno accomodasse un processo. Né ve ne è traccia nelle carte», dice riferendosi agli interessi di Lotti, indagato nel caso Consip.

L’attacco ad Area

Su questo Palamara darà battaglia, impugnando la sentenza alle Sezioni Unite della Cassazione e, se necessario, anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Insomma, sarà guerra.

Palamara offre molte parole e qualche omissioni. Nel suo intervento a braccio in favore delle cinque telecamere ammesse nella sede del Partito radicale, un riferimento in particolare rimane impresso. «Da presidente dell’Anm e da membro del Csm per la mia corrente, Unicost, io ho intessuto accordi in particolare con la parte sinistra della magistratura, quella di Area», dice Palamara. Per chi segue le vicende quelle parole sono pesantissime, perché Area è stata proprio la corrente che meno è finita nelle carte e nelle chat e, secondo i suoi avversari, si è giovata di questa estraneità per prendere in mano il sindacato delle toghe. «I miei problemi sono nati quando ho iniziato a confrontarmi anche con Magistratura indipendente», ha aggiunto l’ex magistrato. L’allusione è chiara: finchè parlava con la corrente di sinistra tutto taceva, quando ha iniziato a guardare anche alle toghe moderate gli è stato installato un Trojan nel cellulare. «Quel Trojan doveva scoprire fatti di corruzione, ma le accuse sulla base delle quali è stato installato sono cadute per richiesta della stessa procura di Perugia», ha specificato lui. Aggiungendo un altro passaggio sibillino: «Le intercettazioni hanno mostrato gli accordi tra Unicost e Magistratura indipendente. Mentre non c’era un Trojan a registrare quello che contemporaneamente avveniva negli altri gruppi associativi, sulle medesime nomine».

Le omissioni

Palamara traccia con le sue parole l’affresco della magistratura associata all’interno della quale si è mosso per dieci anni, come capocorrente di Unicost. Ha spiegato che esiste una «prassi per cui i segretari delle correnti si incontrano al Csm con i togati, per indicare i nomi dei propri associati da sostenere». Ha aggiunto che «relazionarmi con politica era funzionale alle problematiche che affrontavo» e che «quello emerso dalle mie intercettazioni è lo spaccato oggettivo di quello che la magistratura è e delle modalità con le quali si arriva alle nomine». Quando però gli si chiede con quali altri politici si incontrasse e con chi altri intrattenesse rapporti, Palamara si ferma. «Non sono qui per fare delle accuse contro qualcuno ma per circostanziare dei fatti. Il politico non è un oppositore ma con figura istituzionale con cui mi confrontavo».

La conclusione della conferenza stampa dalle sfumature di un comizio è quasi un contrappasso. Palamara, che nella sua carriera da presidente dell’Anm era stato ben lontano dalle posizioni del garantismo radicale, ha dovuto fare l’unica vera ammissione di colpa della giornata: «Da magistrato rivendicavo posizioni assolutiste. La mia nuova esperienza di indagato e incolpato mi ha fatto maturare delle idee nuove» e la conclusione è sospesa: «Quel che si dice è vero: la giustizia va vista da tutti i lati e io, prima, avevo solo la visuale di chi esercita il potere di giudicare».

Il clima nella magistratura, dunque, rimane infuocato. La politica si è tenuta a debita distanza dalla vicenda che ha terremotato l’intero corpo giudiziario ma ora il partito radicale chiederà che venga istituita una commissione parlamentare sul caso Palamara, per chiarire i rapporti tra politica e correnti. Intanto, il 18 ottobre si terranno le nuove elezioni dell’Anm e poi ancora riprenderà il dibattito parlamentare sulla riforma del Csm e dell’ordinamento penale. In questa pioggia di date, il terzo potere sarà chiamato a dimostrare come (o quanto) la radiazione di Palamara sia sufficiente ad archiviare la stagione del fango sulle sue istituzioni.

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