La politicizzazione della cultura è quanto di più sbagliato e al tempo stesso irresistibile ci possa essere. Negli ultimi anni in Italia, con l’affermazione politica della destra, lo scontro politico sulla cultura si è amplificato.

Ciò tanto per le ambizioni della nuova destra, che dopo anni di emarginazione cerca un posto al sole nel mondo della cultura, quanto per la reazione della sinistra, largamente prevalente in quest’area ma anche in grande crisi di identità e risultati politici.

Sono due atteggiamenti che, se osservati con distacco, esprimono una certa ridicolaggine nel mondo di condurre il dibattito. La cosiddetta sinistra colta si spaventa per un manipolo di pensatori, saggisti, giornalisti della nuova destra che spinge per affermarsi non solo con la politica ma anche con la cultura nel mondo delle televisioni, dei giornali, del cinema e della case editrici.

Lo sforzo di questo piccolo gruppo è logico e fisiologico, poiché il successo politico porta sempre con se velleità culturali, ma la reazione della cultura di sinistra è largamente esagerata verso un movimento che appare davvero minoritario.

Si tratta di una decina di persone che da qualche anno frequentano televisioni, quotidiani, fondazioni e istituzioni culturali più di quanto non avvenisse in precedenza esprimendo, tra l’altro, una posizione culturale composita se non quando incoerente. Si va dalla destra sociale, ai nazionalisti, alla destra neoliberale di modello anglosassone, ai cattolici conservatori.

Gruppi che si riflettono in una panoplia di interventi, giornali, riviste, piccole case editrici che cercano di fare incursione nei salotti culturali, ma non v’è nulla di più e soprattutto niente di preoccupante e tanto meno di opprimente. La sproporzione con le “casematte del potere” della sinistra è evidente se non imbarazzante.

Autoreferenzialità

Università, scuole, grandi quotidiani, grandi società di produzione cinematografica, le maggiori case editrici restano fortemente orientate in senso progressista e marxista. Non saranno tre eventi al Salone del Libro di Torino o qualche sceneggiato Rai su personaggi storici sconosciuti o quasi ai più a cambiare questo stato di cose.

Al contrario, questa insofferenza della sinistra al confronto con questi piccoli Davide della cultura di destra mette in evidenza ulteriormente la consapevolezza per la debolezza di certe tesi progressiste, ne mostra una scarsa propensione alla tolleranza e al confronto con l’avversario, veicola l’idea di una cultura conchiusa in sé stessa, ai limiti dell’autoreferenzialità, fondata su reti relazionali e cardini etici ben precisi che però molto raramente riescono a produrre alta cultura o a proiettare la cultura di sinistra italiana in ambito internazionale.

Dall’altro lato, la cultura di destra, o ciò che si ritiene tale, appare sempre più imprigionata nel complesso di inferiorità che la caratterizza.

La smania di politicizzare autori come Dante e Manzoni, la corsa per i posti e gli spazi alle manifestazioni culturali controllate dai progressisti, la balzana idea di fondare una nuova egemonia culturale con gli stessi strumenti della sinistra sono tutti segnali poco confortanti pur se legittimi e comprensibili.

I gruppuscoli della destra culturale dovrebbero fare i conti con la storia e cioè con il fatto che una tradizione conservatrice in Italia non è mai esistita, che la destra politica è stato un elemento politico ultra-minoritario per quasi cinquant’anni e che quindi prendere a scimmiottare la sinistra, che dal dopoguerra prevale ampiamente nell’organizzazione della cultura, per render la pariglia è un’impresa improba e forse nemmeno troppo apprezzata dagli stessi elettori della destra.

È plausibile che questo elettorato non riconosca prestigio né accordi sostegno particolare a intellettuali, professori, editori, registi e saggisti perché la sua educazione politica e civile è di marca diversa dal popolo della sinistra.

La contro-egemonia culturale dei conservatori è un espediente che serve per fare spazio a poche valide persone in certi mondi e istituzioni dove c’è una forte sproporzione di rappresentanza a favore della sinistra, ma non corrisponde ad un movimento culturale ampio supportato dagli elettori.

Il blocco sociale che vota a destra si riflette in altri fenomeni, non si interessa di accademia, editoria o cinema, non si cura di chi, pur con posizioni vicine alle loro, vorrebbe farlo.

Invece gli interpreti odierni della cultura conservatrice continuano a credere che per creare una base culturale diversa si debba ricorrere agli stessi strumenti usati dalla sinistra. Ma per i cittadini di destra l’élite è costituita da chi lavora e produce, dall’imprenditore che investe e dà lavoro, dal professionista e dal manager che risolvono i problemi, dai prefetti che mantengono l’ordine pubblico e non certo da professioni intellettuali, quasi sempre sovvenzionate in modo diretto o indiretto dal denaro pubblico, che presso questa larga fetta di italiani non godono di grande legittimazione e considerazione nemmeno se esprimono idee sovrapponibili alle loro.

Semmai i circoli della cultura conservatrice, ora che c’è un governo di destra, dovrebbero chiedere alla maggioranza di allargare il proprio novero di consiglieri e dirigenti per rendere più efficace l’azione dell’esecutivo.

Ciò non significa naturalmente che il tentativo di far crescere una offerta culturale di destra sia sbagliato, pluralismo e aumento dell’offerta sono sempre apprezzabili, ma c’è da prendere coscienza che possa rimanere per lungo tempo uno sforzo dai risultati limitati.

Cultura alta e popolare

Se la cultura alta non è politicizzabile se non in maniera ridicola – chi può affibbiare etichette all’opera di Montale, di Arbasino, di Calasso o di Sorrentino? – e la cultura media è dominata dall’organizzazione della cultura di sinistra e da un popolo della sinistra che in essa investe e si riconosce, perché la destra non si accontenta del suo dominio nella cultura popolare?

Una egemonia, questa sì, che è alla base del proprio successo politico. È nelle battute ironiche di Checco Zalone, nel successo di pubblico una trasmissione radiofoniche come La Zanzara di Giuseppe Cruciani, nei programmi Mediaset e nella Zuppa di Porro, nei cinepanettoni dei Vanzina, nei vituperati titoli di Libero, nella difesa di tradizioni, usanze e prodotti locali, nel rifiuto epidermico della pedante pedagogia progressista che la destra esercita la propria forza culturale.

Invece che farsi prendere dai complessi di inferiorità verso i professori, gli scrittori e gli autori di sinistra forse c’è da rivendicare con più forza questa connessione con la cultura popolare, da difendere la dignità di questo conservatorismo, chiamiamolo con questo termine oggi in voga, empirico e capillare su cui poggiano le radici culturali e politiche della destra.

Non serve un “Fazio di destra” o un “Moretti di destra” come si evoca dal piccolo mondo della nuova cultura conservatrice, semplicemente perché quel pezzo di popolo non ha bisogno di un Fazio né di un Moretti, non vuole catechismi, rifiuta qualsiasi indottrinamento dall’alto, incluso quello conservatore.

Allora forse, tanto a destra quanto a sinistra, bisognerebbe riflettere bene prima di lanciar strali nel dibattito pubblico: non c’è alcuna aggressione all’egemonia della media cultura controllata dalla sinistra sia in termini di forze e risorse che di pubblico potenziale;

sempre da sinistra non c’è tanto da preoccuparsi – o gridare a un’incursione “fascista” che non esiste – dei quattro gatti della cultura di destra e delle loro piccole creature editoriali; mentre da destra c’è da prendere coscienza dei limiti della propria crociata di contro-egemonia e della forza nella cosiddetta cultura bassa che poi nient’altro è che l’espressione dei bisogni della vita e della libertà concreta; e tutti dovrebbero concentrarsi sui propri limiti per poter essere più lucidi, di buon senso e tolleranti.

In definitiva, forse, tutti i protagonisti di questo dibattito dovrebbe prendersi un po’ meno sul serio e darsi una calmata.

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