Il colloquio fra il presidente incaricato Mario Draghi e quello uscente Giuseppe Conte dura a lungo, un’ora e venti, almeno quanto quello che l’ex presidente della Bce ha avuto con il capo dello stato qualche ora prima. Se ne capisce il motivo. In mattinata Conte, raggiunto dai cronisti, non parla: «Quello che ho da dire lo dirò innanzitutto a Draghi». 

L’avvocato sta vivendo ore di dubbi amletici. È indeciso: mettersi alla testa dell’orgoglio pentastellato, capeggiare la minaccia del no al possibile successore fino a provocarne il ritiro. Quindi restare in carica per gli affari correnti fino al voto, magari arruolando per la corsa il suo drappello di «responsabili» in una forza politica di complemento ai Cinque stelle. «Una strategia alla Trump», in sedicesimi si spera, viene spiegato con apprensione. Ma Conte è anche tentato dall’esatto contrario: fare l’europeista e guidare i Cinque stelle nella definitiva trasformazione in una forza «responsabile», e anche «costruttrice».

Il Pd ha piena consapevolezza del rischio della tentazione numero uno. Per questo fin dalla mattina mette in atto una strategia di recupero. Dario Franceschini dall’Huffintgon Post si dichiara convintamente sicuro che Conte aiuterà i Cinque stelle a sostenere Draghi: «Per come l’ho conosciuto e per il ricordo di quante volte ha giustamente sottolineato il rischio per il paese di un voto anticipato, ho ragione di crederlo». Nel pomeriggio il segretario Pd Nicola Zingaretti da Radio Immagina, emittente della casa con sede nel Nazareno affollato di facce scure, abbraccia figuratamente l’ex premier: «Voglio dire grazie a Giuseppe Conte. Ha guidato il governo in uno dei momenti più drammatici dal Dopoguerra». Annuncia per la sera un incontro con Leu e Cinque stelle «per uno scambio di opinioni su quello che sta succedendo, vogliamo tutelare questo patrimonio unitario», «Mai più pochi e soli come nel 2018 o isolati come nel 2019, altrimenti vincerà la destra». L’allusione è alle elezioni perse da Matteo Renzi – quand’era segretario del Pd – e il «patrimonio unitario» è l’alleanza giallorossa. Che in questi mesi Zingaretti ha definito «strutturale», Franceschini «ineluttabile», e che adesso l’era Draghi può asfaltare. Zingaretti non pensa al voto anticipato, non più dopo le parole di Mattarella, solo Goffredo Bettini ormai le evoca senza convinzione. Il ragionamento è a un altro fine. L’alleanza con il grillini è il tratto politico della sua segreteria, il suo tramonto porterebbe dritti a un congresso, parola che in queste ore tormentate nessun dem pronuncia. Ma questa sarebbe un’altra storia. L’urgenza ora è che il Pd, che non può non sostenere Draghi («da protagonisti attivi», assicura Andrea Orlando), non può votare il nuovo governo da solo con le destre, ammesso che qualche voto da lì arrivi. Più potabile ripristinare quel che resta dell’alleanza giallorossa con chi ci sta dei grillini, e unirsi a Forza Italia in una parvenza di «maggioranza Ursula». Scommessa difficile. Dopo l’inutile trattativa con Renzi, il Pd rischia di scommettere su un’altra mission impossible. Il reggente M5s Vito Crimi è per il no, i gruppi parlamentari anche, Alessandro Di Battista tuona, Grillo incita a restare «fedeli a Conte». Si evoca la piattaforma Rousseau.

I punti da chiarire

L’agenzia Dire scrive che nel colloquio fra il premier «decapitato» (copyright Goffredo Bettini) e Draghi si è parlato di una partecipazione all’esecutivo. Smentita da palazzo Chigi. Peraltro da Forza Italia filtra la mincacci: se c’è Conte non si vota Draghi. In serata la riunione online dell’alleanza rottamata dal rottamatore si svolge. Il clima, viene riferito dai presenti, è «sereno e di confronto». L’inguaribile ottimismo di Zingaretti però produce una «positiva disponibilità di Pd, M5S e Leu di voler continuare a tenere aperta una prospettiva politica unitaria». Ma i Cinque stelle restano sul no. Inflessibili come sempre. Almeno fino a un minuto prima di cambiare idea.

Oggi pomeriggio alla Camera iniziano le consultazioni di Draghi. A ora i numeri non ci sono. Ma l’incaricato non ha ancora rivelato il profilo del governo, e la squadra. Le destre annunciano una delegazione unitaria. Matteo Salvini non nega differenze interne: «Draghi ci incontrerà, andremo da lui ad ascoltare, capire, proporre, valutare. Non abbiamo pregiudizi». La Lega, spinta dall’ala che fa capo a Giancarlo Giorgetti, è di ora in ora più aperturista – potrebbe astenersi – Fratelli d’Italia è rocciosamente sul no, Forza Italia e cespugli meditano il sì. Dipende da Draghi. Nel suo primo discorso pronunciato al salone delle feste del Quirinale dopo aver accettato «con riserva» l’incarico, sulla pandemia e sulla crisi ricalca le parole che la sera prima il presidente della Repubblica. Anche sul profilo del governo: si dice «fiducioso che dal confronto con i partiti, con i gruppi parlamentari e le forze sociali emerga unità e capacità di dare una risposta responsabile». È il mandato che Mattarella gli ha conferito quando ha rivolto «un appello a tutte le forze politiche presenti in parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica». Draghi, il supertecnico che non ama i governi tecnici, dovrà esercitarsi a trovare una formula politica che «non si identifichi con alcuna formula politica». Al voto non si può andare, serve un governo «whatever it takes».

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